Milano – 12 dicembre 1970L’altra Parte di Roberto TumminelliDa PIAZZA BELLA PIAZZA - ed. Nuova Iniziativa Editoriale, 2005, pag. 85-96 È una giornata strana, lo è fin dall’inizio. Ci siamo messi a tridente ma i tre vertici comunicano solo lentamente. Noi siamo disposti in Santo Stefano, e le grida, i rumori, le esplosioni secche dei lacrimogeni, tutto arriva smorzato e attutito, in qualche modo disinnescato dall’enorme edificio che ci divide dagli scontri. Non più di cento metri, in linea d’aria, ci separano dai compagni del “mucchio selvaggio”, ma i metri reali sono molti di più, perché in mezzo c’è la massa dei palazzi situati fra via Bergamini e piazza Santo Stefano, una massa cospicua e inerte, capace di nascondere e ritardare la rivelazione, la conoscenza, l’informazione su quanto sta succedendo dall’altra parte. Sul terzo fronte ci sono quelli che presidiano largo Richini, gli studenti medi. Una cosa è sicura, noi dobbiamo stare qui, in Santo Stefano, e tenere bloccata la situazione. Ho dormito due ore, forse, questa notte. Sono stato su con Anna, implacabile secchiona carina da morire, che mi costringeva a ripetere e ripetere Canetti, Marx, Lukacs, e solo alla fine, ma erano ormai le tre, il premio più ambito, le sue labbra morbide sulle mie, il calore del suo corpo sottile, una carezza… Ma adesso sono fisicamente provato, pieno di adrenalina benedetta che mi sostiene mentre tengo gli occhi bene aperti. Che li avrebbero spinti addosso a noi, gli anarchici intendo, che li avrebbero attaccati e “usati” per venirci contro lo avevamo previsto e per questo eravamo preparati a difenderci dalla polizia intorno alla Statale. Da largo Richini, da via Bergamini, in piazza Santo Stefano. Proprio qui, su Santo Stefano, c’erano state infinite discussioni con il vicequestore. Noi dicevamo che in piazza restavamo noi e loro stessero sulla via Larga e loro invece a dire che noi dovevamo al massimo stare su via Festa del Perdono e loro nella piazza. Alla fine era venuta fuori questa situazione assurda, che noi e Polizia stavamo tutti in piazza a fronteggiarci, bardati come guerrieri antichi. Noi, il servizio d’ordine del Movimento Studentesco, e a pochi metri loro. A scrutarci, squadrarci, ingaggiare duelli di sguardi d’acciaio. E io sto lì da un bel po’, a fissare questi estranei in divisa, occasionali e ostili abitanti della mia piazza. Ho in testa un vagabondare di pensieri, non particolarmente profondi, ma numerosi, un piccolo esercito completamente fuori dal contesto che mi circonda, ma che tuttavia devo proprio riconoscere come mio. Individui mentali che si raggruppano, si allineano, si confondono di nuovo per poi riordinarsi di colpo, come rondini e storni quando vagano a centinaia, la sera, apparentemente incerti se partire o rimandare, costruendo arabeschi e disegni infiniti nell’aria fresca di settembre. Mi naviga nella mente il gatto dell’Agnese, quella descritta da Renata Viganò. Lei, l’Agnese, aveva una gatta grigia e gliela aveva ammazzata un tedesco per gioco. Un modo di scherzare molto militare. Ma l’Agnese, che non era spiritosa, non così, in ogni caso, ammazzò il tedesco, per poi scappare in brigata, dove rimase. Chissà perché ci penso. Forse perché anche io ho una gatta grigia. E intanto contemplo i poliziotti bardati e scalpitanti, belli carichi di ormoni e pronti, così sembrerebbe, per farci il culo. Ma galleggia anche il fantasma dell’esame di Morale, fissato fra quattro giorni. E io oggi sono qua, a passare mattina e sera a guardare turgidi poliziotti, a interpretare il guerriero in piazza, e ieri tutto il pomeriggio alle riunioni e il mattino a fare la supplenza. Eppure questo esame mi serve per farci la tesi, devo prendere un bel voto, e cerco di ripassare mentre osservo il vicequestore che continua a andare avanti e indietro fra via Larga e la piazza. Cosa è l’ortodossia marxista? Eh? Mi verrebbe voglia di chiederlo a lui. È il metodo dialettico, ovviamente, solo la dialettica garantisce il nocciolo d.o.c. del pensiero marxiano, dice Lukacs. E Canetti? Perché il prof è fissato su Canetti e sulla sua cazzuta teoria circa l’origine del potere, sul comando, originario e immediato, insito nel ruggito del leone: «Scappa o ti uccido!» Nelle orecchie emerge sussurrante la voce roca di Anna che mi spiega, senza possibilità di replica, che «la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose». Lo dice il “giovane Marx”. Così mi faceva ripetere ieri sera, la mia amata tiranna dalle labbra di rosa: «Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci». Anna insiste e fuma più sigarette di Yanez: se sostituiamo il termine “operaio” con il termine “lavoratore dipendente”, oppure “risorsa umana”, e diamo all’“oggettivazione” il significato estensivo che le compete, continua…, mentre il vicequestore si agita chissà perché, e lei, Anna, annuisce con sguardo serio, il quadro risulta adeguato anche all’analisi del lavoro oggi. Quanto mi piace il modo energico in cui soffia dalle labbra il fumo dell’ennesima sigaretta e mi bacia passandomi una mano fra i capelli. Mi sento svenire per il sapore dolce della sua lingua mescolato all’amarognolo della nicotina. Il fumo, ad Anna, fa bene. La testa mi scoppia, fa freddo ma non lo sento, il vicequestore è sempre più preoccupato e discute con un graduato in divisa. Anna, la bella ideologa, finisce il mio discorso: il proletariato si è internazionalizzato, la divisione del lavoro avviene su scala planetaria…. in Occidente, una maggioranza di metechi, di perieci e di iloti serve fedelmente il capitalismo, l’imperialismo, il razzismo, insomma, lo “sviluppo”, cioè l’orrore, vende la propria esigua coscienza per una cospicua fetta di prodotti di consumo… Alla fine, solo alla fine, Anna scioglie il suo bruno sguardo severo in un sorriso magico che cerco disperatamente di non far dissolvere nell’immagine del vicequestore e dei suoi scagnozzi. Sto cercando di non dimenticare di essere uno studente. Ma non è giornata. Fa freddo, fa grigio, i fascisti hanno convocato una manifestazione in piazza Fontana, noi anche, l’ANPI ha convocato un comizio, gli anarchici vogliono manifestare per Valpreda e per commemorare Pinelli. Insomma una giornata da pazzi, il 12 dicembre 1970. «Senti, è successa una cosa…» Il ragazzo mi guarda stravolto. La giubba imbottita di tipo militare che lo fa sembrare ancora più grosso è allacciata, lui spinge gli occhi per farli uscire dalle orbite, suppongo. I capelli gli stanno su dritti come fossero anche loro per aria impressionati dalla cattiva notizia. Lo guardo. «Giorgio mi ha detto di dirti che di là,» e fa un cenno con la testa verso la via Bergamini «è morto un compagno… l’ho già detto a Toscano e Capanna…» «Occazzo…!» «Sì, sì, era con noi, era lì con noi che tiravamo i sassi e ha preso un lacrimogeno proprio nel petto.» «Sei sicuro che è morto?» «Giorgio dice di sì, sì, è sicuro…» Gli hanno sparato un candelotto nel petto! Nel petto! Ma che cazzo di posto è, penso, ma che paese, che persone sono queste! Ma come fa a venirti in mente che puoi sparare un candelotto a altezza d’uomo in mezzo alla gente? Ma quale abisso di odio o ignoranza può spingere un ragazzo, un uomo, anche se infilato in una divisa - cosa che non ha mai reso migliore nessuno - a sparare un candelotto in mezzo a una folla di manifestanti, che sono gente come te, del tuo fottuto paese, che lotta per i diritti propri, per quelli dei lavoratori, delle donne, magari anche per i suoi, del poliziotto e dei suoi parenti. Certi giorni sono proprio segnati. Un anno fa la strage nella banca, adesso un ragazzo muore per il candelotto, i fascisti ci aggrediscono di continuo….
Sento Luca che dice in modo concitato che «se solo si agitano li carichiamo!», e parla dei poliziotti che abbiamo davanti. Poi mi guarda e aggiunge «stiamo calmi». Decidesse un po’ cosa vuole! Calmo sono calmo, ma sento come un senso di irrealtà. In un angolo della coscienza qualcosa sta montando, forse una richiesta di incazzatura, e anche una domanda. Ma chi si credono di essere questi per giocare così con la vita degli altri? Io non li riconosco come simili. Discendo da un altro ceppo animale, ho altre origini, altri cromosomi. Puttana il clero! Questa non è una guerra, loro lo sanno? Si tratta di gente che manifesta legittimamente, come scritto nella Costituzione, libertà di manifestazione. Se ci scontriamo, ci si aspetta qualche manganellata, qualche botta, una pedata, anche i lacrimogeni, su, per aria, che poi scendono, ma non che te li sparano addosso. Invece, è sempre così. Gli danno l’ordine di spararceli addosso! E fanno male. A Enzo hanno rotto un piede con un candelotto, a Camillo ne hanno sparato uno nel rene che quando avrà cinquant’anni se lo ricorderà ancora. Oppure ti travolgono con le camionette come il povero Ardizzone. Anche nel luglio 1960 ne hanno ammazzati un bel po’ di manifestanti, quella volta a rivoltellate, per difendere il tentativo di Tambroni di portare i fascisti al governo! In banca, qua dietro, un anno fa hanno fatto sedici morti e poi Pinelli che, secondo i questurini, come Icaro tenta di volare e “salta” dalla finestra. In Questura con la stanza piena di funzionari! Ora questo ragazzo lo hanno ammazzato con un candelotto. Cerco di frenare la concitazione interiore. Vorrei apparire impassibile. Mi sembra che una nebbiolina trasparente ci avvolga e tolga consistenza alla scena. È sempre così, quando qualcuno muore ammazzato la consistenza del reale si liquefa, svanisce, le cose si confondono, resta solo l’immensa ingiustizia della trasgressione più vile, l’omicidio politico. Adesso tutti sanno quello che è successo, e i compagni inquadrati cominciano a insultare pesantemente i poliziotti a pochi metri. Nello stesso tempo devono, dobbiamo, tenere a bada chi è dietro per evitare che scaglino pietre o altro. La tensione sale al massimo mentre in Bergamini la battaglia infuria. Il corpo del ragazzo è in ospedale per l’estremo tentativo. Ma i compagni dicono che era già morto quando l’ambulanza è partita. Odio, pensieri di odio, pensieri di sangue che non torneranno mai indietro si mescolano allo sgomento, e anche a un sentimento sottile che penetra sottopelle, la paura. Una domanda incombe, continua a premere: ma che Paese è? Perché il potere deve avere questa ghirba assassina? E i “benpensanti” come mai continuano a benpensare le stesse stupide e oscene cose, a scandalizzarsi per qualche orrore, da Auschwitz a Portella della Ginestra, per poi subito dimenticare e di nuovo stupirsi per qualche altro corpo privo di vita, sacrificato in nome dell’ordine pubblico, democratico, aristocratico o nazi che sia? È successo così per le atrocità naziste e fasciste, eppure siamo ancora alle prese anche con i nazisti e i fascisti! Ma perché un ragazzo, un ragazzo come me, della mia età, o di meno o di più, deve essere fascista? Come mai ha idee o miti o pensieri di morte, di ingiustizia, come mai ama la gerarchia, l’ordine, la merda sadiana, la tortura, le camere a gas, l’orrendo quadro evocato dalle Centoventi giornate di Sodoma, rivelatrice profezia letteraria! La gioventù è forza traboccante che detesta freni e barriere, odia i privilegi, vuole che tutti stiano bene, aiuta i meno fortunati. Ma questi chi sono? Non ci sono venuti a dissotterrare Firenze dal fango dell’alluvione? Non hanno letto nemmeno una pagina di Don Milani? Perché uno si entusiasma per le infantili sciocchezze che scrive Evola e non si innamora di Hesse? Ha ragione Pesce, quando descrive i fascisti come un’altra razza, briganti che si eccitano nell’osceno gesto di dare la morte, sbarbatelli feroci vicino a delinquenti avvezzi al sangue e ai massacri. Che ridono dopo aver sterminato quindici persone in piazzale Loreto. Ricordo, le ho scolpite in mente per sempre, le parole di Pesce: «Loro ridono. Hanno appena ucciso quindici uomini e si sentono allegri. Contro quel riso osceno noi combattiamo.» È un’altra razza. Non hanno diritto al perdono! Bisogna solo neutralizzarli. Mi torna alla mente la sera in cui ho conosciuto Pesce. Sì, Giovanni Pesce. Alla biblioteca rionale di Calvairate. Anzi al deposito atm di via Lombroso. Alle nove di una sera di poco più di un anno fa, eravamo una sessantina, riuniti e equipaggiati per rispondere alle provocazioni dei fascisti per una manifestazione convocata nella biblioteca, quella di via Ciceri, affacciata su piazza Martini. Noi radunati al deposito, a circa 800 metri. Pieni, pienotti di sassi e altri oggetti di difesa, con i caschi nuovi appena comprati tutti insieme con lo sconto, circondati da un miliardo di ps e dal solito vicequestore, uno con la faccia da biscazziere, poveruomo, non quello che ho davanti adesso. Praticamente fregati. Luca che cercava di trattare il nostro avvicinamento alla biblioteca, mentre tutto quello che il vice voleva fare era disperderci o arrestarci, voleva far valere la forza, la durezza dei suoi mezzi, dei suoi uomini, dei manganelli e altro. Gliene fregava assai a lui dei fascisti alla biblioteca! In quell’ora in cui le ombre diventano imponenti e i colori del giorno sono ormai assorbiti dalla notte, solo due pallide lampade in alto a illuminare il nostro gruppo di disperati, compatti, spalla a spalla, accostati al muro altissimo e senza finestre del deposito atm, quasi a cercare protezione. Stavamo intruppati, vicini vicini, decisi a… non lo sapevamo nemmeno noi a cosa, forse aspettavamo solo di essere trasferiti in carcere, ma stavamo là, cupi, pronti, con dipinta sui volti un’espressione determinata e contratta, la protervia della disperazione, che compariva e spariva nelle luci intermittenti. Tutto a un tratto, il miracolo. La situazione si sblocca. Come in una visione, nel buio rotto solo dalle minacciose luci blu dei mezzi della polizia, sopraggiunge un uomo in età matura, di bassa statura, in giacca e cravatta, snello e dall’aria decisa, che senza indugi si rivolge al vicequestore con disinvolta sicurezza: «Sono la medaglia d’Oro Giovanni Pesce.» Il funzionario gli risponde subito in tono deferente. Lo conosce, sa chi è, e gli chiede il perché della sua presenza. Pesce gli spiega quello che il funzionario già sa e che tuttavia ascolta con attenzione. «I ragazzi», cioè noi, «vogliono partecipare all’assemblea alla biblioteca di Calvairate, c’è il timore di provocazioni… I ragazzi sono stati invitati da noi». Fissavo incantato quel mito vivente, il comandante partigiano Visone, il gappista che aveva raccontato le sue gesta e quelle dei suoi compagni in Senza tregua. La guerra dei gap, l’uomo che aveva compiuto imprese di sovrumano coraggio… che entrava nei ritrovi dei nazisti e del fascio, sparava con una rivoltella, colpiva infallibile e fuggiva in bicicletta, nella nebbia di Milano… o di Torino... Quel giorno, invece, di nebbia ce n’era poca anche se era novembre, ma l’arrivo di Visone aveva rovesciato i rapporti di forza, aveva creato un’atmosfera che modificava progressivamente la situazione, che sembrava portare una qualità magica che trasfigurava tutto e cambiava le carte in tavola, anzi, le regole del gioco. L’uomo, Visone, mi sembrava avvolto in un raggio di luce, e crescere, levitare, sovrastare tutti e tutto. Mi sembrava, ma non sembrava solo a me, sembrava a tutti noi, ma credo anche a “loro”, ai “garanti dell’ordine pubblico”, un gigante che discorreva con degli umani. E il vicequestore annuiva, cercava di resistere all’autorevolezza di quell’uomo, delle sue nuove regole, della nuova atmosfera. Una grande calma ci invase tutti quanti, distribuiva sicurezza persino agli uomini in divisa, dissolveva la paura, rassicurava… nemmeno il sonoro rimbalzo sull’asfalto di una mazza ferrata riuscì a spezzare l’incantesimo. «Beh…» disse il vicequestore, «…se Lei garantisce… Medagliadoropesce», così, tutto di seguito, «se Lei si fa garante….» «Certamente!» rispose Pesce arrotando la erre in un suo modo inconfondibile, «mi assumo tutta la responsabilità!» Le divise grigie si aprirono e si andava formando uno strano corteo. Alla testa procedeva il piccolo grande uomo, il Comandante Giovanni Pesce, dietro di lui Luca, poi io e tutti gli altri, e così attraversammo viale Molise, con al seguito il vicequestore e i suoi ufficiali, poi circa duecento poliziotti, tre o quattro camion, una camionetta. L’insolito corteo prese a percorrere la via Calvairate e qualcuno, forse Aleardo, intonava le prime note di Bella ciao, e tutti le ripresero, cantando sempre più forte, e il quartiere rispondeva. Voglio dire che le finestre si aprivano e le donne e gli uomini affacciati cominciavano a cantare con noi e a applaudire e così cantando percorremmo la via Calvairate, scorrevamo lungo il bordo di piazzale Martini, per approdare felicemente in via Ciceri Visconti dove si trovava la biblioteca, dove c’erano un centinaio di persone che applaudivano il nostro arrivo alla testa della manifestazione. Dei fasci nemmeno l’ombra (verranno più tardi!), ma Pesce fu veramente grande, fece un bellissimo comizio nella notte ricordando il dovere di tutti, popolo e istituzioni, di lottare contro la “barbarie nazifascista”, e ci aveva anche salvato le chiappe con brillante leggerezza. Già, e adesso che cosa farebbe Pesce? Beh, lui oggi, 12 dicembre, è con l’ANPI, all’unica manifestazione autorizzata. Lo spiegava bene Di Nanni, uno degli eroi raccontati in Senza tregua, che l’arrivo della democrazia e della sua dialettica avrebbe reso difficile districarsi nei conflitti sociali e politici, che sarebbe stato complesso capire la differenza fra l’avversario politico e il nemico… addirittura fra amici e nemici. Eh sì, Di Nanni lo spiegava con parole profetiche. Ma io, noi, crediamo di conoscere bene questa differenza, sappiamo di dover sempre fare i conti con questo. Con le istituzioni, che tendono a restringere i diritti piuttosto che a garantirli, con la complessità della lotta politica… Ma loro? Gli altri? I fascisti che ci accoltellano e sparano, che ci aggrediscono in continuazione, loro sanno qualcosa? E gli avversari politici, e le “forze dell’ordine”, la conoscono questa differenza? E se la conoscono, come è loro dovere, perché ci ammazzano con candelotti e camionette? E il generale dei Carabinieri che ha tentato il colpo di Stato qualche anno fa? E quelli che hanno messo le bombe in piazza Fontana? Quelli evidentemente non sanno niente, nemmeno la differenza fra un cittadino e la carne da macello… ed è poco ma sicuro che non erano della nostra parte, non anarchici, non di sinistra… Intorno a me la situazione continua a peggiorare. Luca non torna più, i gruppi di poliziotti schierati davanti a noi hanno l’aria baldanzosa, i compagni gridano, dalla strada, da via Larga arrivano urla e scoppi e io non so più come gestire la situazione. Avevamo deciso di non attaccare, di non aprire un altro fronte e la decisione politica non è cambiata nel corso degli eventi. Il vicequestore che ho davanti sembra avere avuto la stessa disposizione. Ma uno studente è stato ammazzato! Questo vuole ben dire qualcosa! Adesso poi ha anche un nome, Saverio Saltarelli, e un’età, che purtroppo non cambierà più. Non saprà niente o quasi della vita, sarà morto senza conoscerla, vittima della grottesca maledizione che lo ha portato inconsapevole al tragico appuntamento di via Bergamini. Cerco di restare calmo. Poi mi decido, vado dal vicequestore e gli chiedo se sa che è stato ammazzato un ragazzo. Lo sa, mi risponde che gli dispiace, e sembra chiedermi con gli occhi quali sono le nostre intenzioni. Gli faccio capire che dipende dal loro atteggiamento. «In che senso?» «Nel senso che i compagni sono veramente incazzati!» E indico il gruppo alle mie spalle che rumoreggia e continua a insultare i suoi militi. «Se c’è qualcosa che posso fare…» «C’è,» gli dico a muso duro, «dovete andarvene dalla piazza!» «Ho l’ordine di restare.» Il suo sguardo è implorante. Sembra veramente contrito, dispiaciuto e per quanto ne so potrebbe anche essere sincero. Perché dovrebbe gioire della morte di uno studente, anche se compagno? Magari non è un varano e fa solo il funzionario. Mah. Non che il dubbio mi turbi più di tanto. «Almeno faccia una cosa,» gli dico, «altrimenti non tengo più nessuno e qui succede il finimondo.» «Mi dica….» «Li faccia girare dall’altra parte!» «Come dall’altra parte…» «Verso la chiesa.» Il funzionario tergiversa, dice che non è contemplato dal loro regolamento, e lo penso anch’io che non possono voltare le spalle ai manifestanti, specialmente in una situazione di questo tipo. Eppure, mi sembra che stia per cedere. E poi ormai ho esaurito la pazienza, qui si rotola a valle, la forza delle cose sembra prendere il sopravvento. Gli dico che o lui gira i suoi uomini verso la chiesa, armi e bagagli, cioè senza niente più di puntato contro di noi, oppure…. «Lei mi dà la sua parola che…» dice guardandomi negli occhi, «che….» Non ci credo, e non ci crederò per un pezzo. Li fa girare verso la chiesa di Santo Stefano e li tiene lì fino alla fine della giornata. Nessuno li attacca alle spalle, se non verbalmente. Per un tempo che sembra infinito i compagni vanno avanti a ritmare il grido Cagoni, assassini, pausa, buuum! Arriva Luca trafelato e sudato, nel gelo, richiamato dalla parola d’ordine bizzarra e rimane sbigottito a fissare il groppone dei militi girati verso la chiesa. “Che cazzo succede? Si sono girati? Sono impazziti?!” mi chiede in sequenza. “Sono stato autorevole”, rispondo enigmatico spostandomi fuori tiro. Con un piccolo, o grande, cedimento quel vicequestore si tira fuori dal modello antropologico dello sbirro senza cuore e senza cervello per cimentarsi con i problemi di una nuova umanità, più ricca e responsabile. Direbbe Canetti che invece di assorbire la spina del comando o di liberarsene trasmettendola ai suoi sottoposti, con il rischio di produrre qualche altro cadavere nella deriva mortuaria del nostro Paese, ha preferito la soluzione più difficile. Disobbedire. Così, la schizofrenia di una giornata cattiva si risolve con un ragazzo di ventitré anni ucciso dai poliziotti in via Bergamini e la polizia umiliata in piazza Santo Stefano. Quel vicequestore non è un varano, è un uomo, ma ha ancora ragione il compagno Di Nanni, l’eroe di Visone, in democrazia è difficile distinguere chi è il nemico. In questo groviglio inestricabile di interessi, di lobby, di gruppi di pressione, di stronzi organizzati, la coscienza del cittadino moderno, che nasce con un patrimonio di diritti e di doveri, consapevole di sé e degli altri, non perfetto ma migliorabile, rischia di annegare, si dilegua, si annulla, sparisce. Anche perché, nei conflitti sociali, spesso a ucciderti è l’arbitro.
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