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NONNO MI RACCONTI DI QUANDO ..........."Nonno mi racconti di quando…….",Sara, la mia nipotina la incuriosisce la mia vita, la mia infanzia cosi diversa e cosi lontana, sprofondata nel tempo e con radici così lontane da questa casa. Samuele, il fratellino vuole sapere come vivevano e cosa facevano gli "antichi", poiché io oltre a nonno e vecchio sono anche "antico”, come antica è questa nostra casa. E così pesco a casaccio nel mio passato fatti e fatterelli, giochi e avventure da raccontare. Naturalmente li abbellisco, li coloro, li allungo e li allargo. Ma ora i nipotini sono cinque e crescono, quando certi episodi li abbellisco un pò troppo cominciano a pungermi con occhietti maliziosi: "ma noonnoo"........
Va bé, passiamo ai fatti. Racconto senza pitturare troppo prima che diventi cosi vecchio da non avere più niente da dire. Torno indietro, dopo un lungo viaggio e mi ritrovo là dove sono nato......nel 1927, in una zona fra le più squallide della Val Padana, la zona "bergamasca" della provincia di Cremona: il cremasco.I miei ricordi d'infanzia si associano sempre al freddo intenso e alle fìtte nebbie dell' inverno e al caldo afoso dell'estate padano, quasi che le altre stagioni non esistessero. Non ne ho più un ricordo preciso. La nostra cascina, non era di quelle che si vedono nella pubblicità; belle, colorate, coi fiori variopinti e ruscelli con simpatici animaletti. La nostra cascina, come tutte, era sporca e malinconica. Immersa in porcilaie e stalle soffocanti, pollai e fango e acquitrini nauseabondi e liquami ove sedevano massicce e troneggianti montagne di letame. Miseria, bigottismo e fatiche sovrumane. Il tempo scandito dal chiaro e dallo scuro, dal caldo e dal freddo e dal "sommarti".S.Martino al mio paese è sinonimo di trasloco. E’ il trasloco. Ho saputo molti anni dopo che S.Martino si chiamava anche trasloco. Intorno ai primi di novembre la zona brulicava di carovane. Scadevano i contratti annuali, chi veniva cacciato e chi se ne andava per cercare di meglio. In realtà era quasi sempre uno scambio di tugurio dove, sul fuoco, con la polenta ci mettevi anche le speranze.
Ma il rito si ripeteva. Prima dell’alba si caricavano i carri di quelle incredibili e miserabili masserizie, vi si attaccava il cavallo o una mucca e noi tutti intorno al carro, avvolti negli stracci, nella nebbia e nel sonno, ciondolavamo per chilometri, su stade dì pozzanghere, lungo pallidi filari di pioppi, fissando i neri spettrali tabarri degli uomini che, precedendoci, fendevano la nebbia trascinandoci alla nuova cascina. Nuova?
Ci si fermava sempre all'entrata del cortile per buttare uno sguardo d'insieme e ogni volta la casa appariva sempre peggio della "nostra". Buia e fredda, grande e vuota, sconosciuta sbrecciata e umida. Sempre. I più piccoli piangevano immancabilmente, non si sapeva il perchè, del resto nessuno gli dava retta. "Gli si allargano i polmoni" sentenziavano i grandi. Di uguale c'era sempre, laggiù, in qualche angolo appartato del cortile, il cesso. Uno sgangherato sgabuzzino di legno, una specie di garrita intorno ad un grosso buco con una tavola posta di traverso, una tavola di legno fradicia, putrida e scivolosa dove ci si appoIlaiava per i bisogni. Nel cesso ci andavano solo i grandi, e non sempre. Per i bambini era troppo pericoloso e del tutto inutile.
Mia madre per prima cosa attaccava al consueto gancio, nel mezzo del soffitto della cucina, di rimpetto al camino, la "lucerna", il lume a petrolio. Il barlume di luce giallognola gracile e dondolante che emanava a stento metteva ancora più malinconia. Gli angoli della cucina rimanevano sempre al buio. Poi attaccava all'altro consueto gancio la cesta del pane a pagnotte di granoturco, inaccessibile ai bambini.
La mia famiglia era religiosa in senso bigotto, como erano allora quasi tutti i contadini di quelle parti. Si pregava quando ci si alzava, quando si mangiava e quando si andava a letto, oltre all'immancabile rosario della sera, infine tutte le messe, le novene, le processioni. I miei genitori, otto figli, mio zio non sposato, mio nonno, eravamo quasi una parrocchia. Gli affari religiosi si svolgevano nel modo più meccanico e passivo. Dopo cena, appena sparecchiato (non c'erano tovaglie nè tovaglioli) regolarmente mia madre dava inizio al rosario serale dilungandosi in una malinconica tiritera che nessuno di noi capiva, né piccoli nè grandi. Neppure lei. Per lo più i piccoli giocavano sommessi sotto il grande tavolo ma si finiva sempre per disturbare e mia madre tra un "virgo fidelis" e un "tures eburnea", senza scomporsi, calava sberle sotto il tavolo trovando sempre qualche testa a riceverle. "Turis eburnea" e con la risposta corale del "ora pro nobis" arrivava la sberla.
La religione era una cosa fissa naturale ed immobile, come la casa, la stalla, i prati, le bestie. Solo che, a differenza delle altre, questa "cosa" non capiva la nostra lingua.
Scoprii a scuola che anche il nostro maestro (un meridionale) non parlava come noi. Parlava "italiano". Ma il bidello, come il Curato con le preghiere, conosceva le due lingue e faceva da interprete.
Non è che, comunque, ci fosse bisogno di tante parole all'inizio, quando si riempiva una sfilza di quaderni con puntini, lineette, aste diritte e storte. Ma i misteri linguistici incombevano su di noi non solo alla scuola e nei colloqui col padreterno.
II 90% delle famiglie operaie e il 95% di quelle contadine parlavano esclusivamente il dialetto. La propria lingua madre.
In “italiano” c’é il dottore, le medicine, l'ospedale. In “italiano” c'è la chiamata alle armi, ci sono i bandi, i divieti, le ingiunzioni, i regolamenti, i tribunali, il podestà, la sede del fascio, le condanne, le multe, il Messo Comunale. In "italiano" sono le rate, i prestiti, i debiti. Le umiliazioni e le minacce, le paure e le violenze.
In "dialetto", la lingua madre, trovi le amicizie, la solidarietà, i litigi e gli screzi, gli aiuti le confidenze e i pettegolezzi, la tristezza e l'allegria, le speranze, i progetti, gli amori.
In dialetto parlava al 90% anche la Resistenza.
L'italiano comunicava solo con gli "altri". A questa nuova lingua del resto non avevamo neanche troppo accesso. Mio padre arrivò alla 3? elementare. La scuola si fermava li. Mia madre si fermò alla seconda. Veniva troppo lunga arrivare in terza. Andò, come tutti, in campagna. Noi poco di più. Dieci figli, solo un paio superano di poco le elementari. L'italiano non era la lingua della Nazione ma della Stato. Di chi comandava, dei più forti, dei potenti che troppo spesso sono prepotenti. L'italiano del resto non veniva neppure usato in Toscana dove pure è nato e neppure dal popolino romano, dove c'era il potere ma che col potere non avevano niente da spartire.
L'italiano suscita una diffusa, sottile diffidenza. Chi lo parla per lo più non lo conosci o lo conosci poco; dice cose diverse dalle tue. Le limitate disponibilità dei vocaboli e le difficoltà di metterli in fila per gente che a scuola non arriva che raramente oltre la quinta non facilita certo il dialogo. Ora non più ma allora era cosi. In definitiva due lingue, tre col latino dei preti. La nostra e quell'altre.
Un giorno la religione doveva scomparire da casa nostra e questo avvenne quando quello che sarebbe diventato mio cognato, nel 1944 venne catturato dai fascisti e condannato a morte. L'8 settemre 1943 al crollo dell'esercito italiano, fu catturato in Croazia dai tedeschi. Per evitare la prigionia e per tornare in Italia passò alla repubblica di Salò. Alla prima occasione sarebbe fuggito. Poco dopo, mentre si apprestavano a mandarlo al fronte disertò passando alla Resistenza. Fu catturato una seconda volta e rinchiuso a S.Vittore in attesa della fucilazione. Riuscì in modo incredibile ad evadere con l'aiuto di un suo amico, nostro vicino di casa che prestava, come poliziotto, servizio nel carcere. Anche il suo, amico dovette scappare con lui rischiando la stessa fine. Aveva un coraggio che spesso rasentava l'incoscienza. Voleva, per quello che era possibile, regolarizzare la sua posizione con mia sorella incinta. Aveva troppe possibilità di non sopravvivere, Con lui mia madre e mia sorella andammo un sera dal prete del nostro Rione, il Lorenteggio. II prete si dimostrò aggressivo e fazioso. Rifiutò qualsiasi mediazione: doveva prima fare “il suo dovere verso la Patria" e regolarizzare la sua posizione verso le “Autorità”. In pratica doveva prima farsi fucilare……Questo prete era uno di quelli indaffarati a benedire gagliardetti, armi o truppe fasciste in plateali parate e manifestazioni davanti alla chiesa, che allora era all'inizio di via Inganni, fra le vie Lorenteggio e Giambellino. Poco mancò che mio cognato gli sparasse. Qualche sera dopo riprovammo coi frati di via Velasquez. Quella chiesa di mattoni rossi si trovava allora in piena campagna, a S.Siro, alla periferia di Milano. Non si risolse un granchè ma quei frati si comportarono molto meglio. Fu comunque l'ultimo contatto che la mia famiglia ebbe con la religione. I miei genitori avranno funerali civili.
NonnoOra i tempi sono cambiati, siamo al duemila. Le grandi tensioni ideali non le vedo più. La miseria che attanagliava e umiliava gran parte dei lavoratori è diminuita. Ma la giustizia no. Non è ancora conquistata. Se mai lo sarà. Troppi ne fanno a meno. E’ questa una grande amarezza e la grande sconfitta dell'uomo. Non mi sono mai messo in fila con quelli che porgono l'altra guancia. Mi sono sempre difeso e, se non proprio una porta ho cercato di aprire almeno una finestra dalla quale i miei figli potessero vedere un po’ più in là. La nostra generazione l'ha fatto con uno zaino affardellato di sacrifici enormi, spesso senza accettare mai un minimo di briciole che il padrone, misurandole, elargiva a chi, per paura, per necessità o per egoismo si piegava, spesso senza accorgersi che i prepotenti per piegarli camminavano sulle loro schiene.
Ora non sono più sulla grande strada, mi sono tirato un po’ a lato. Vivo da anni nell'entroterra ligure, sulle stupende colline del Finalese, non lontano dal mare, a ridosso delle sue bellissime montagne che, degradando verso il mare, incontrano i rocciosi dirupi di Perti. Una stupenda palestra naturale per rocciatori. La mia antica passione.
Io e la mia compagna abbiamo intrapreso un'altro lavoro. Rimettere in sesto un vecchio rustico, circondati dai nostri figli, da tanti amici, da tanti compagni. Assieme ai nipotini, qui liberi e felici fra i filari della vigna, gli ulivi, le piante di frutta, i fiori. Tanti fiori. Questo ci toglie dall'angoscia dell'ozio.
C'è pace e serenità e, nel vociare dei miei nipotini, il dolcissimo richiamo: nonnooo....
Peccato che vi siano folate di vento che portano anche quassù i miasmi del mondo.
Giacomo "Gino" Montemezzani
Calice Ligure (SV)
estratto del libro "Come stai compagno Mao" ed. LierEtà
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