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La stanza vuota

Il passato è una stanza vuota.
Chi vi abitava se n’è andato. Ha lasciato un mucchio di carte. Appunti, note, scarabocchi di simboli strambi, disegni. Fogli accartocciati sotto tazze di tè. Posacenere. Una bottiglia, dove c’era acqua che nessuno ha bevuto. Nessuno è tornato. Qualcuno, cioè, è uscito di fretta, pensando di far ordine, poi. Il tempo non è mai abbastanza per rimettere in sesto le cose.
In strada, un tram passa. Nel tempo, questo è rimasto. Binari incassati nel selciato, in Piazza Cavour, in Corso XXII Marzo.
Io sono uno sguardo, e allora non c’ero. Posso dire quel che vedo ora.
Ora, che il passato è una stanza vuota.
Ci sono foto, qui. Mi piacciono le foto, anche se non ne faccio mai. Credo che mi affascini l’idea di questo tempo fermo, senza sviluppo. Ma so che non è un tempo vero: le foto trasformano l’atto in un desiderio, lo consegnano a un tempo che non è. Fanno pensare a noi, che non c’eravamo, che nulla sia accaduto, e che la morte sia una fantasia del fotografo, un imbroglio, una finzione necessaria. A cosa mai, nessuno sa.
Rovisto tra queste finzioni necessarie, nella stanza dimenticata. E trovo fantasmi, non ancora rassegnati a svanire.
Qualcuno mi viene incontro e mi parla.
Io sono uno sguardo, e ascolto quello che questo fantasma giovane ha da dirmi.

Voglio camminare libero.
Voglio attraversare questa piazza. Voglio dire a quella gente ogni cosa che penso, ogni cosa. Voglio non fermarmi. Voglio continuare a pensare di poter scegliere la mia strada. Voglio poggiare i piedi sicuri. Voglio restare lucido, senza paura, tranquillo, mentre dico quel che penso. Voglio tornare dal mio corteo alla mia casa. Voglio pensare di poterlo fare senza rischio. Voglio rispondere quando vengo affrontato. Voglio sapere che potrò parlare, forse arrabbiarmi, forse urlare coi miei compagni. Voglio pensare che nessuno rischierà mai la propria vita a dire quello che pensa. Voglio tornare in questa piazza ogni volta che avrò voglia, domani o dopo, a vedere se tutto è rimasto come prima. E ora voglio andarmene.
Per questo mi volto.
Giro le spalle.
Non vedo la pistola.
Il rumore dello sparo non si vede nelle foto, ma io l’ho sentito. L’ho riconosciuto. Ho pensato anche che non avrei sentito le grida, dopo. Sono lucido. Non penso di morire.
Non ora.
Dunque, uno sparo.
Non voglio questo proiettile nella testa.
Mi ucciderà.
Mi ha ucciso.
Voglio camminare libero. Posso farlo, ora?

Nel tempo, la carta fotografica ingiallisce. I contorni si arrotondano, le figure sfumano. Le facce sono tante e strane, con acconciature che non riconosco. Non è possibile che sia passato tanto tempo. E in tutto questo tempo, nessuno è venuto a riordinare la stanza vuota, o soltanto a vedere cosa c’è dentro.
Niente di nuovo, dopotutto, dicono: bandiere sventolate ferme in un vento che non c’è, bocche spalancate in urla che non sento. Le foto non hanno suono.
E’ in questo silenzio in bianco e nero che gridano.

Soldati.
Si marcia in mezzo a file di soldati. Fantasmi in divisa che si infilano tra noi, e ci porteranno via uno per uno.
Paura? Ce n’è sempre, ma è nelle cose, nella vita.
Provocazione: è un dato, bisogna esser preparati, è così. Noi non ci fermiamo.
Corso XXII Marzo, dall’alto, è una selva di teste, abitate di pensieri che nessuno saprà. Braccia che si toccano, nervi si tendono. Binari del tram sotto i piedi. Folla.
Soldati.
Paura.
Si è spaventati tutti, il che non è una giustificazione. Si è spaventati, ma conta come si reagisce alla paura. Bisogna sapere, sempre, a che punto fermarsi. E prima sapere quel che si fa, e perché.
Io lo so.
Soldati.
Camminiamo, pigiati. Via Mancini è una svolta tagliente, guarnita di molte difese. Noi dobbiamo passare.
Soldati.
Se una cultura ha in mano un fucile e l’altra non ha nulla, si può già prevedere chi vincerà. Chi l’ha detto? Non ricordo.
Soldati.
Urlo.
Soldati su ruote.
Le camionette e le persone: non va bene così.
Via Cellini. Arretriamo.
Soldati. Su. Ruote.
Accadrà ancora.
Ruote.
I binari sono freddi. E’ ancora Aprile.
Oggi non passano tram.

Ordino le foto una sull’altra. Le spolvero con cura e cerco di comporle in una storia. C’è ogni momento, ogni personaggio, ogni ultimo attimo di vita. Solo che non riesco a trovare un senso.
Guardo e riguardo. Controllo. Ricostruisco ogni atto senza averne le parole.
Ma la stanza è vuota, e io sono solo uno sguardo.
Così all’improvviso capisco quello che devo fare.
Esco per strada a chiamare altra gente. Occorre ricordare.
Perché la memoria ridiventi vita.

Nicoletta Vallorani
Milano