CERCA

dal nostro archivio

  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
  • dal nostro archivio
PDF Stampa E-mail

La partita

La politica praticata era qualcosa che non avevo mai vissuto. Da poco iscritto al PSIUP e a un corso di perfezionamento in Filosofia in Festa del Perdono, nel 1968, proprio lui!, mi ero trovato proiettato in una realtà giovane, turbolenta e affascinante, che leggeva, affabulava, gridava, sparava con leggerezza pesanti citazioni, dove tutti sapevano tutto, erano informati di tutto, leggevano la “Monthly Review”(1), Lukacs, la Fenomenologia dello spirito e sembravano non avere gravi dubbi su presente, passato, futuro. Le ragazze erano libere e belle, con affascinanti minigonne, sorrisi smaglianti e alcune pensavano anche di essere sorelle.
Era un mare in tempesta nel quale venivano salpate e affondate organizzazioni rivoluzionarie nel giro di un pomeriggio, dove vorticavano idee, ideologie, anatemi, certezze, confusione, botte, amori, liti, pacificazioni, libere scopate, corna, tenerezza, urla di scherno e assalti fascisti con regolari ferimenti, interventi polizieschi, insieme a sguardi smarriti e gesti inconsulti di patetici docenti dall’effimera autorevolezza che non capivano che l’era autoritaria dei libretti che volavano durante gli esami fra le grida di disprezzo era finita, o comunque rimandata a un futuro non immediato.
In questo meraviglioso caos cercavo di districarmi e di trovare il senso compiuto di una azione politica e culturale, con la sensazione precisa di vivere un momento storico importante, anzi unico, nel contesto italiano.

E poi c’era l’antifascismo. Ci sgorgava dal cuore. Richiamarsi alla Resistenza partigiana era stato istintivo, così come chiamarsi Nuova Resistenza, dato che eravamo costretti a subire l’arrogante ricomparsa dei fascisti, con coltelli, pistole, bombe e con la tracotanza di chi sa di essere protetto.  Certo i fascisti erano richiamati sia dal conflitto di classe che vedeva il movimento operaio sempre più forte e combattivo nell’autunno del 1969, sia dall’esplodere vigoroso del movimento degli studenti che in numero sempre maggiore affollavano una scuola e una Università vecchia, bigotta, ipocrita e di classe, amministrata da un ceto di professori altrettanto bolsi e reazionari. Ma il bersaglio preferito dai fascisti era la nuova categoria politica, “gli studenti”. A “fare massa” con i fascisti i soliti riccastri senza arte ne parte o aspiranti tali, una gioventù minoritaria e senza idee, sostenuta da vecchi malvissuti che avevano nostalgia del fascismo e della propria gioventù, e tutti insieme formavano la cosiddetta “maggioranza silenziosa”. In più, i maledetti “servizi”, il cancro della democrazia, e la stramaledetta CIA.
I fascisti li avevamo sempre intorno a fare i prepotenti come se nell’aprile del ‘45 non fosse successo niente. Fingevano di non sapere che in piazzale Loreto quel giorno non c’erano solo i partigiani ad assistere alla miserevole fine del regime, ma una folla immensa, mossa dalla necessità di finirla definitivamente con il fascismo. E trovandoceli contro fisicamente tutti i giorni questi bei soggetti bercianti e pericolosi, avevamo sviluppato dei vigorosi anticorpi, energici e aggressivi, ispirati soprattutto alla Resistenza e agli Arditi del popolo, che come si sa, non stavano a guardare.

Così anche per me la politica era diventata una ragione di vita. Il Movimento Studentesco mi aveva assorbito completamente, era qualcosa che avevo fondato anche io, era “mio”, l’ avevo sotto la pelle, l’ amavo con la passione furiosa, fisica e morale, dell’amore assoluto.
Questo modo di fare politica mi aveva insegnato il senso della parola “compagno”, un termine per nulla banale, meraviglioso e rivoluzionario che certamente ha sconvolto le famiglie italiane e i cardinali molto più dei PACS o i DICO o quel che è.
In quegli anni, i giovani, gli “studenti”, escluso la minoranza di debosciati che ciondolava intorno ai fasci nel centro delle città, erano “compagni”. Termine che non voleva necessariamente significare, “comunista”, nel senso tradizionale di aderente del Partito Comunista, anzi, era sinonimo di libertà di pensiero, portava con se una particolare “atmosfera”, un’”aura” speciale che univa solidarietà, anticonformismo, antifascismo, disponibilità a cambiamenti radicali, soprattutto nel costume, pubblico e privato.
Una parola semplice in fondo e accattivante. Ciao compagno. Che bello, è come se si fosse stati tutti amici. Ovvio che non era così, ma compagno è una parola che ho sempre trovato bellissima, e in ogni famiglia ce n’era conficcato almeno uno di questi “compagni. Questi giovani “compagni” avevano costretto madri, padri, nonni a fare i conti con un nuovo modo di essere, a discutere, e queste discussioni avevano reso migliori i vari componenti la famiglia, dal “compagno” padre alla “compagna” mamma o nonna. Dai e dai, “tutti” erano diventati compagni, il compagno tramviere, il compagno professore, il compagno Rettore, Questore, capitalista, secondo Pasolini anche il compagno poliziotto, quasi quasi chiamavi compagno anche il fascista al quale avevi in mente di spaccare le ossa o speravi che si facesse male scappando.
“Prima”, nulla di questo genere mi era successo. Niente di politico, niente di sociale. Solo il privato, la normalità di una vita sociale da ceto medio intellettuale urbano. “Dopo”, un impegno totale, faticoso, “bello”.

Così, quando Turi aveva preso da parte me e Giorgio e nel suo solito modo ammiccante ci aveva detto, “dovete organizzare un torneo di calcio, anzi fate una Polisportiva”, mi era sembrato di fare un tuffo nel passato, di tornare in un mondo dove “i massimi sistemi”, come si diceva allora, erano importanti, ma non quanto la partita di calcio nella squadretta con gli amici. Insomma, era l’occasione di unire due dimensioni, quella del divertimento e quella politica, che fino allora sembravano inconciliabili ma che aspettavano solo l’occasione per riunirsi.
Dopo una settimana dall’annuncio del torneo, a undici giocatori per team, avevamo dovuto chiudere le iscrizioni per eccesso di adesioni malgrado avessimo posto la “discriminante antifascista”, cioè, che i fascisti singoli o in gruppo non potevano partecipare al torneo. Ma arrivavano iscrizioni da tutte le parti, studenti medi, Università, quartieri, persino il personale non docente di Festa del Perdono aveva iscritto una squadra. Il messaggio era chiaro, nell’aria non solo si respirava “voglia di cambiamento”, di politica, ma anche di qualcosa di sportivo, cioè di calcio giocato direttamente. Meglio se ornato di un velo di pulviscolo politico. People voleva impegno, ma anche il fussbal!
A sessantaquattro squadre iscritte avevamo chiuso il torneo che era, con formula tennistica, a eliminazione diretta. Giorgio e io avevamo così cominciato a impegnare arbitri federali in libera uscita, a prenotare campi sportivi, a reclutare collaboratori per le comunicazioni, a contattare i responsabili. Un caos pazzesco, ma organizzato. In un mese e mezzo 63 partite, 32 nelle prime due settimane, su campi vari. Ci sono diventati famigliari nomi come Calvairate, Lavanderie, Mezzate, Crescenzago, insieme ai gloriosi Forza e coraggio, Giuriati, Colombo ecc..

Ma…e noi? Noi del Movimento Studentesco? Noi avevamo partecipato con una squadra dal nome glorioso e quasi intimidatorio, “Arditi del popolo” e siamo andati in finale contro il Bartabacchi, la squadra dei simpatizzanti di sinistra da bar che stazionavano abitualmente al bar d’angolo in Festa del Perdono. Arrivare alla finale fu un divertimento totale. La partita più dura, pur fraternamente combattuta, era stata quella contro i “bidelli”, oggi si direbbe commessi. Vincemmo uno a zero con una battaglia infinita e Giannino segnò il gol della vittoria. Lottammo come leoni con Leopoldo a dominare e spazzare l’area.
La nostra squadra era tosta. Al centro della difesa ruggiva un rosso dai piedi più “petrosi” di Ithaka, aggressivo e deciso, in mezzo alla difesa il “libero” Leopoldo dirigeva con autorevole energia le operazioni, contrastava, conquistava palloni e distribuiva il gioco. Lui da solo era mezza squadra, peraltro equilibrata e ben costruita. Sulla sinistra Giannino era un puntero leggero e svelto, a destra Michele si distingueva per le falcate veloci e un po’ sbilenche che gli permettevano di mantenere una certa velocità in curva, come i ciclisti, ma gli consentivano conclusioni sicure solo se arrivava defilatissimo sulla destra, allora infilava implacabile con diagonali stretti e micidiali. Un colpo inconsapevole, secondo i più. Infatti se arrivava in area da posizione centrale il suo tiro finiva nei pressi della bandierina del corner. Sulla fascia sinistra agiva con progressioni irresistibili anche il Grande Lebone(2), alias Fabio, il terzino più fluidificante dell’Occidente, un gigante di un metro e novanta con i capelli lunghi e la fascia, che amava il blues e seminava il panico nelle difese altrui roteando le potenti gambone, non sempre seguito dalla palla..

Avevamo una specie di rito. Dopo aver segnato il primo gol, data la difesa impenetrabile non ne subivamo quasi mai, tornavamo a centro campo e per invitare a resistere alla prevedibile reazione avversaria io dicevo con aria determinata, “e adesso, fuori i coglioni!”. Poi guardavo il primo che mi passava vicino e gli dicevo “quindi tu esci”. La battuta non era un gran che ma io la ripetevo ogni volta e tutti ci facevamo della grandi risate. E si sa, contrariamente a quello che dice Robert Duvall .in Apocalypse now, il buonumore sa di vittoria molto più del napalm.
Ci siamo divertiti. Stavamo bene insieme tutti quanti. “Il Chicco” poderoso centrocampista, che quando sua mamma, lei medesima, aveva freddo gli diceva “Chicco metti il maglione”, in porta l’unico liberale antifascista mai partorito da madre italiana, capace di parate impossibili e.Umberto, il nostro “numero nove”, un matto che faceva gol difficilissimi e ne sbagliava da buttarlo dal ponte. Poi Giannino, genuino longilineo basso, che pennellava in bello stile sul limite dell’area, ma non era certo un “abatino”, anzi menava mica male.
E avevamo persino il risvolto erotico. Leopoldo aveva una storiella con il gluteo più ammirato del movimento. Titolare del portento anatomico era una “compagna” dall’incedere felino, una pantera alta il giusto, gambalunga, spesso infilata in una “mini” leopardata, volto sensuale e modi di fare da “diva” naturale. Quando passava la salutavamo tutti con espressioni involontariamente bavose, e lei ci concedeva vaghi cenni cardinalizi, benedizioni con mano distratta. Quel fortunello di Leo ci era uscito e in un momento di euforia, dopo qualche birra in una cena conviviale, ci aveva anche confidato che la pantera gli slip, ovviamente microscopici, li chiamava “l’ultimo baluardo”. Di quale misteriosa virtù resterà un segreto noto solo al possente Leo. Ma le briciole che ci aveva concesso avevano rinsaldato un’amicizia sempre più cementata sul campo e al bar.

Toscano era contento, noi anche, avevamo avuto il torneo, lo avevamo vinto e eravamo pieni di tifosi. Una faticaccia ma a Milano si parlava solo di quello, soprattutto in Statale. Il politico si era saldato all’attività sportiva, eravamo diventati per un po’ una specie di parrocchia antifascista e calciofila distribuita su tutti i campetti di Milano.
La polisportiva non l’abbiamo fatta. Giorgio e io eravamo cotti e non avevamo avuto la forza di muovere le acque fino in fondo.
In notturna al campo di Greco, davanti a un folto pubblico di appassionati muniti di striscioni sia per gli Arditi che per Bartabacchi, abbiamo vinto il torneo con l’arbitro più antipatico mai visto. Gol di Umberto nel primo tempo. Proprio verso la fine, su mio corner Leopoldo si è alzato mezzo metro più degli altri per “incornare a rete”, così scriveva Gianni Brera, il due a zero. Fantastico.
Ne abbiamo parlato per mesi. Persino il poliziotto in borghese che stazionava bonario e distratto giorno e notte davanti alla Statale mi aveva apostrofato, “gomblimendi dottò, bella viddoria!”.
Il torneo è entrato nel nostro presepio, con il Che, Giap, la rivoluzione dei garofani portoghese, “la contraddizione principale e l’aspetto principale della secondaria”(3), “la caduta tendenziale del saggio di profitto”(4), e non dimentichiamo il “culo della pantera”(5).

 

1 - Era la rivista dei comunisti USA. Raffinata, elitaria, conosciuta in tutto il mondo.
2 - Famoso esterno sinistro inglese dal fisico possente.
3 - "...e l'aspetto principale della contraddizione secondaria", era uno dei punti dell'analisi teorica del Movimento studentesco particolarmente caro a Mario Capanna
4 - Famoso passaggio dell'analisi marxiana nel Capitale che spiegava il processo dell'inflazione.
5 - Prestigioso gluteo trattato nel testo

Roberto Tumminelli
Milano

 

Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie To find out more about the cookies we use and how to delete them, see our privacy policy.

I accept cookies from this site.
EU Cookie Directive plugin by www.channeldigital.co.uk