GLI INTERVENTI Sito dell'associazione PER NON DIMENTICARE CLAUDIO VARALLI - GIANNINO ZIBECCHI https://www.pernondimenticare.net/interventi Sun, 10 Nov 2024 22:07:59 +0000 Joomla! 1.5 - Open Source Content Management it-it L'altezza del gioco https://www.pernondimenticare.net/interventi/328-laltezza-del-gioco https://www.pernondimenticare.net/interventi/328-laltezza-del-gioco  

L'altezza del gioco

E' appena uscito, per i tipi della CUEC (Cooperativa Universitaria Editrice Cagliaritana) il libro di Giulio Stocchi, L'altezza del gioco. Quella che segue è l'introduzione, che abbiamo il piacere di presentarvi in anteprima.    

A mo' di introduzione

Conversazione di Massimo A. Bonfantini con Giulio Stocchi  

MAB: Ma come ti è venuto in mente di fare il poeta? Quando? E perché? E quali sono stati i tuoi primi maestri? E i primi temi e motivi?

Giulio: Più che venirmi in mente, la poesia mi è entrata in corpo.
Ricordo benissimo: La sala di Via Sapeto, dalle parti di corso Genova, con i mobili che mio padre aveva comprato d'occasione da una famiglia di sfollati quando ancora Milano bruciava nella guerra, il tavolo enorme, la credenza col soldatino di Capodimonte con cui, malgrado tutti i divieti, ero solito giocare, e lo specchio che rifletteva l'immagine di un bimbo, chino sul suo diario rilegato in cuoio, molto anni '50, col ritratto della Fornarina in copertina. Su una pagina il bimbo aveva incollato la foto dei suoi genitori, più giovani allora di quanto non sia io adesso. E sotto quella foto scriveva, preso da una strana agitazione, una sensazione quasi fisica, di rapimento, di batticuore, di esaltazione. Qualcosa che avrei riconosciuto alcuni decenni dopo nella parole di Valéry: "Mi sono trovato un giorno ossessionato da un ritmo, che divenne improvvisamente assai sensibile alla mia mente...". Un ritmo che cercava delle parole. Fuori dalla finestra, Milano era ancora una distesa di macerie, su cui qua e là si levavano le impalcature della ricostruzione.
E il bimbo riempiva quel ritmo con le parole che erano sue: "Un giorno nella spazzatura/trovai un mazzo di carte/sporche stracciate fra la segatura...". E la sua vertigine cresceva: per la prima volta l'universo si era messo in rotazione seguendo il gioco ingenuo di quelle prime rime: "Mi fecero pena le povere carte/le raccolsi con cura dalla sozza segatura/le pulii e le posi fra un portacenere e un fermacarte.." E obbedendo a quella voce che "mi dittava dentro", seguivo l'avventura del povero mazzo che cercava un'improbabile ascesa sociale che si concludeva con la condanna del suo ritorno alla spazzatura, sancita da questa sentenza: "Se sei di bassa condizione/non tentar di andare in alto/che il fermacarte oggi mi dié gran lezione". Una massima, questa, che tutta la mia vita futura si sarebbe incaricata di confutare. Ma allora era quello che mi avevano insegnato, e nello stesso tempo mi invitavano a trasgredire, gli abiti decorosi e gli occhi tristi di quell'uomo e quella donna che mi fissavano dalla foto in Piazza Duomo.
E allora, com'é naturale nella primissima adolescenza, -e ormai conquistato dalla magia di quella voce che mi aveva toccato nell'infanzia e seguire la quale significava "fare il poeta"- cercavo altri modelli che mi aiutassero a sciogliere quel "doppio legame", l'imposizione di una regola e, nello stesso tempo, l'invito alla disobbedienza.
A stare a quel curioso libro che è L'angoscia dell'influenza di Harold Bloom, in cui lo studioso considera la storia della poesia come una lotta che ogni poeta ingaggia (come fa ogni figlio col suo genitore naturale) con il padre poetico che si è scelto, il mio romanzo famigliare è davvero complicato. Verlaine, Rimbaud e soprattutto Baudelaire -il ritratto del quale campeggiava sul mio letto di quindicenne- sono stati i miei primi modelli. Padri severi, pur nella loro dissolutezza, e che anzi, proprio col
disordine della loro vita mi indicavano la via della ribellione.  
 

MAB: La poesia è fatta di suoni, concetti, immagini, che si rimandano in segrete correspondances, per ricordare Baudelaire.
Ma a me sembra che, prima del gioco dei simboli, nella tua storia di poeta, di poeta recitante, sia importante il tuo gioco con il canto, con la tua e le altre voci.

Giulio: In verità le poesie che scrivevo al ginnasio, quelle dedicate ai primi, timidi, amori erano, ti assicuro, piene di "corrispondenze", come pure di tutto quell'armamentario di nebbie, violini, luna, funerali, mendicanti, prostitute, assenzio che i miei primi maestri mi avevano lasciato in eredità. Le figure del mio ideale mazzo di carte cominciavano a moltiplicarsi...
E tuttavia la tua domanda coglie un tratto, e un tratto essenziale, della mia fisionomia: se debbo ripensare alla mia esperienza di poeta, di cui del resto L'altezza del gioco è il resoconto che copre l'arco della mia vita, debbo dire che uno dei cardini, delle fondamenta, se non il cardine e le fondamenta, del mio modo di fare e di intendere la poesia, sia la mia profonda convinzione circa la primazia, la priorità della voce sulla scrittura, che della voce è una pallida e, per certi versi, mutilante trascrizione. Perché solo nella viva voce del poeta -che può essere naturalmente anche semplicemente voce interiore, che risuona per così dire nel suo cervello- si articola quel gioco di suono e di senso, o, se vuoi, di immaginazione e di ragione, che è il gioco stesso della poesia. Sempre Valery dice una profonda verità quando afferma che la poesia è lo sviluppo di un'interiezione. Lo sviluppo, appunto: l'edificio della poesia poggia sulla materialità del suono. Il poeta gioca coi suoni, come facevamo tutti da bambini e come, fra gli adulti, fanno i "matti". E' questo l'aspetto propriamente regressivo, "patologico", materiale, della poesia, che fa del poeta quell'entusiasta, quell'en zeòs, quel pieno di dio, quel folle di cui parlava Platone nello Ione. La mia vita e la mia esperienza hanno, da questo punto di vista, una strana e per certi versi straordinaria coerenza: essere fedele a quel brivido, a quella vertigine, a quel brusio, a quel suono -in una parola alla "ispirazione"- che s'erano imposti al bambino che ero con tanta imperativa evidenza e fare di essi lo strumento per sciogliere quel nodo che ti dicevo.
   

MAB: Il gioco coi suoni ha in te, con piena spinta spontanea e con attento esercizio di pensiero, due relazioni molto importanti: una con la musica, l'altra con l'impegno etico-politico...

Giulio: Tutto il resto è venuto, per così dire, da sé: l'incontro con la musica che può dare frutti solo là dove la voce sviluppi tutte le sue potenzialità per fondersi o dialogare con gli altri strumenti; la costruzione dei miei libri come vere e proprie partiture in attesa di un'eventuale esecuzione; la partecipazione entusiasta ai lavori e agli studi del Club Psomega -che tu hai fondato e di cui si tratta ampiamente nel libro- proprio perché credo che la poesia sia una delle forme più alte e originali di pensiero inventivo e basi le sue invenzioni su quel gioco di suono e senso cui ho accennato.
Per quanto riguarda la musica, i percorsi dell'invenzione mi hanno riservato non poche sorprese. L'orchestrazione percussiva di molte mie poesie consigliava, per così dire, un matrimonio fra le mie parole e le note di molti dei protagonisti del jazz italiano contemporaneo, fra cui Gaetano Liguori e Arrigo Cappelletti. Due pianisti dal temperamento molto diverso: esuberante il primo quanto più introverso e  riflessivo il secondo, definito non a caso il "filosofo" del jazz. Ebbene una mia poesia, particolarmente frivola e libertina, ha deciso di accompagnarsi prima all'uno e poi all'altro, facendomi scoprire qualcosa che intuivo, ma che in quelle frequentazioni un po' malandrine mi si imponeva con l'evidenza che solo la pratica ha. Come nella vita, quando ci si innamora di uomini o di donne diverse, ognuno, entrando in risonanza con l'altro, mette in evidenza aspetti diversi del suo carattere, così la mia poesia rivelava certi tratti di vivacità spaccona col primo e una sobrietà più contenuta con l'altro.
Questo per dire che la mia creatura reagiva in modo vivo e non stereotipato: un corpo fatto di suoni e di sensi che si stringeva a un altro corpo fatto di suoni e di sensi. O, fuor di metafora, due sistemi significanti ed espressivi che interagivano, condizionandosi a vicenda.
Mi chiedi infine del mio impegno: a ben vedere, anche la mia vocazione "rivoluzionaria" ha qualcosa a che fare con la poesia, così come io la intendo. Se è vero che la poesia affonda le sue radici nel felice e gratuito gioco dei suoni dellanostra infanzia, se è vero che l'infanzia è lo scrigno di tutte quelle promesse che un'organizzazione livida e feroce della società si incaricherà di smentire, allora la poesia e il poeta non potevano non essere al fianco di chi lotta perché i colori dell'infanzia e la sua luce trionfino. Forse per questo un altro poeta a me caro, Juan Gelman, dice che la poesia è sempre anticapitalista.
   

MAB: Ma tornando alla tua storia, alla tua vita.  Dunque, come hai detto, scrivevi poesie già al ginnasio e  al liceo... E poi che cos'hai fatto? Quale facoltà? E quale scelta di attività, di lavoro, di professione?

Giulio: Innamorato del suono, della voce, l'unico diploma che mi sia guadagnato è stato quello di attore, proprio per sviluppare, indagare e sfruttare le capacità della voce, per restituire attraverso di essa quella materialità del suono di cui parlavo e che mi ha sempre abitato. Fallito il tentativo di guadagnarmi un'altra laurea in filosofia per il rifiuto di Spinazzola, il mio professore di italiano di allora,  di accettare il mio poema come tesi, e stanco di recitare parole altrui, in un'esperienza di attore che del resto mi è stata utilissima, mi sono presentato, vincendo tutte le mie possibili timidezze, introversioni e via dicendo, e armato della mia sola voce, di fronte a uno dei "pubblici" più difficili e tradizionalmente esclusi dalla poesia: gli operai, gli sfruttati, gli ultimi, gli indifesi. Un'esperienza unica e indimenticabile che mi rende francamente incomprensibile l'eterna lagna dei poeti circa la scarsità o la sordità del pubblico. Il pubblico, gli ascoltatori sono lì. Basta avere la volontà, la capacità e l'umiltà di presentarsi e avere anche magari la forza di sollevare gli occhi dal proprio ombelico e guardare il mondo, le sue contraddizioni, i suoi drammi, la sua ricchezza e la sua speranza. Con questo non voglio assolutamente dire che la poesia debba essere "civile", "sociale", "rivoluzionaria" e via tromboneggiando. Quello che voglio dire è che la poesia può trattare di qualsiasi argomento e chi la vuole rinchiudere nella gabbia esclusiva del proprio "intimo", della propria "anima", della propria "individualità", e via misticheggiando, compie né più né meno che una violenza, come quando si mette un uomo in prigione.
   

MAB: Del tuo poema fai cenno anche nell'introduzione del tuo libro Compagno poeta, pubblicato da Einaudi nel 1980. In questo tuo libro di ora, L'altezza del gioco, che cosa c'è di quel tuo antico progetto?

Giulio: Il poema è per così dire l'opera della mia vita, nel senso che mi impegna ancora adesso. Scritto fra il '69 e il '73, in quegli anni di assemblee, ragionamenti, manifestazioni, solidarietà, amore che sono il dato indimenticabile della mia giovinezza, è stato continuamente rimaneggiato, rivisto, sistemato: dei centoventi e più canti di allora, ne sono rimasti novanta, alcuni dei quali ho utilizzato, senza il numero d'ordine, ne L'altezza del gioco.
La stesura di questo libro mi ha occupato per circa sei mesi, dall'estate del '99 al gennaio del 2OOO. Si tratta, come Compagno poeta, di un prosimero -un alternarsi cioè di versi e prose che trova nella Vita nova di Dante il più illustre esempio nella nostra storia letteraria- e di quel mio primo libro è l'ideale continuazione.
Se la stesura dell'opera mi ha impegnato sei mesi, i materiali, gli scritti di cui è composta coprono più di trent'anni: dai canti del poema, alle poesie di agitazione, a quelle di riflessione o di amore, ai racconti, alcuni dei quali, come ad esempio Essere come rinati, ho scritto appositamente.
   

MAB: Insomma nell'estate del '99, alla fine del millennio, hai ripreso il discorso e i materiali maturati dopo Compagno poeta.
Il nuovo libro è come un Vent'anni dopo dumassiano. Con fedeltà e continuità, con approfondimenti e innovazioni. O no?

Giulio: Mi trovavo, quell'estate, di fronte a una massa sterminata di materiale: si trattava di dare ordine, unità, organicità al tutto. E qui è divenuto protagonista del mio lavoro quello strumento del montaggio inteso proprio in senso cinematografico. Come dice Pudovkin ne La settima arte: "Con una serie di tentativi e di prove, e con la cosciente composizione artistica, il regista crea le 'frasi di montaggio', dalle quali, passo passo, risulterà la definitiva opera d'arte".
Su quell'ideale moviola che era il tavolo di cucina della mia casa di Chiavari prima, e sulla scrivania di Milano poi, si trattava insomma di cucire insieme epoche, frammenti, maturità, generi e stili diversi. Il principio cui mi sono ispirato, e del successo del quale non sta a me giudicare, è stato quello di costruire, attraverso le "frasi di montaggio" che sono gli accostamenti di cui mi sono avvalso, un discorso che restituisse la mia immagine e la mia storia, la storia degli anni del nostro immediato passato e presente, proiettata sullo sfondo di una vicenda mitica, quella degli ulissiadi e del viaggio per mare che popolano il mio libro, -viaggio per mare magistralmente illustrato nel volume dalle fotografie di Fulvio Magurno, un artista ligure di cui la sensibilità di Grazia Neri mi ha proposto e fatto conoscere l'opera-  che desse in un certo qual modo spessore e prospettiva al tutto. E per sottolineare questa faticata unità, le citazioni in esergo ad ogni "capitolo" sono, per così dire, il filo ideale che cuce insieme il tutto: la prima citazione in esergo a Agli estremi confini è tratta dall'ultima lassa del libro, L'allodola pazza, e via via tutte le altre prese dai brani che immediatamente precedono. E che fosse infine il libro anche, e forse soprattutto, il resoconto di un certo modo di fare e di intendere la poesia. Quel gioco cioè, la cui altezza ho voluto ricordare nel titolo e che costituisce, ove riesca, quella che io, non credente, chiamo "la gloria di dio", e cioè la voce dell'uomo che supera la sfida del tempo e della morte.
   

MAB: Quanto contano nel tuo lavoro, come ispiratori e voci con te dialoganti, Neruda e Majakovskij?

Giulio: Neruda ha posato sulle mie labbra le parole con cui per la prima volta mi avventuravo alla scoperta di quel continente che è il corpo di una donna e mi ha lasciato per sempre in dono lo sguardo lirico con cui mi volgo al mondo. Majakovskij mi apparve come un gigante, non solo per la statura che ebbe in vita, ma per quel suo impegnare tutto se stesso, il suo corpo e sopratutto la sua voce, per dare forza e vigore alle sue parole, quelle parole con cui si presentava alle assemblee operaie, ai soldati, ai contadini, ai proletari del suo tempo. Una lezione indimenticabile, che ho cercato di mettere a frutto nelle mie poesie di piazza, nel contatto che per tanti anni ho avuto con le masse di questo paese e per cui Nico Orengo, non senza ironia, aveva intitolato, su "Stampa libri",  un articolo che mi riguardava, Majakovskij alla Bovisa. Aver portato la poesia in quei grigi quartieri è il mio orgoglio e il mio onore.
   

MAB: La didascalicità di Brecht, e talora anche di Dario Fo, l'invettiva beat e il cantare delle immagini di Breton e forse di Queneau mi sono spesso sembrati tuoi nutrimenti, seppure sempre ripresi secondo una tua cifra inconfondibile, lirico-epico-popolare, con un sapore esistenziale ed espressionista alla Tessa...

Giulio: Brecht mi ha fatto capire come fosse la poesia anche ragionamento di estrema ed efficacissima acribia mentre, all'altro capo del filo, i surrealisti mi svelavano la ricchezza dell'abbandono al gioco della lingua con la loro scrittura automatica foriera di imprevedibili scoperte con i suoi bizzarri accostamenti.  Un altro dei territori, le sterminate lande della metafora, i regni dell'analogia, che ho continuato instancabilmente a percorrere. Mentre l'urlo di Ginsberg e dei suoi sodali, oltre a rivelarmi il volto di un'America diversa da quella degli psicopatici che oggi risiedono alla Casa Bianca, mi ha indicato, nelle sue cadenze e nelle sue dissonanze, la strada di un accostamento alla musica, al jazz in particolare, come ti dicevo.
Ma, a proposito di Dario Fo voglio raccontarti un aneddoto gustoso. In quel periodo tormentato in cui praticamente vivevo sulla soglia di casa mia, senza ancora risolvermi a varcarla e iniziare quell'esperienza di poesia di piazza che per tanti anni mi ha visto percorrere questo paese, un giorno ho telefonato a Dario per chiedergli un consiglio, un parere. Dopo estenuanti trattative, rinvii, ripensamenti, finalmente Dario acconsente a ricevermi all'una di notte, dopo lo spettacolo, a casa sua, che allora era in Piazza Baracca vicino a dove abito io. L'attore mi riceve in cucina, dove insieme a Franca Rame sta sgranocchiando un panino. Guarda un po' perplesso la valigia il cui peso mi faceva sbilenco; un'ombra di panico gli corre negli occhi quando vede la massa sterminata di fogli del mio poema che tiro fuori da quella specie di bauletto; obietta infastidito che essendo lui un attore non c'è bisogno che il poema glielo legga io; si rassegna alla mia determinazione e dopo circa un minuto, proprio quando la mia voce con le sue armoniche più flautate e persuasive si avventurava "in un delirio di stelle e di alberi", mi interrompe, dice che un proletario non avrebbe mai usato la parola "delirio" e mi congeda con una pacca sulle spalle e qualche frase di cortesia. Salvo poi, alcuni mesi dopo quando, fatto il gran passo fuori da casa mia, mi aveva ritrovato sul palco di un comizio, presentarmi con un: "Ascoltatelo bene: questo è un ragazzo che vale molto", che ricompensava l'incomprensione di quella sera e riconosceva la mia cifra inconfondibile, alla Tessa, come dici tu...
   

MAB: Ma parliamo un poco dei nostri classici. Io penso che come giustamente diceva Carrà per la pittura, che bisognava ripartire da Giotto, così penso che ogni poeta italiano debba ripartire da Dante. E radicare il suo moderno impegno nella linea  Parini-Leopardi. E poi?

Giulio: Dei nostri grandi, Dante è stato per così dire il "miglior fabbro", il mastro architetto che mi ha fatto capire come ogni libro, ogni poema, ogni poesia, sia un edificio da costruire con l'esattezza e la pazienza dei vecchi artigiani; debbo ricordare che, accanto a Dante, Petrarca, mi ha confermato come la poesia -ma del resto anche l'arte e la cultura- sia in ultima analisi la sola sfida alla morte che uomo possa con successo lanciare; di Parini mi ha sempre affascinato lo spirito corrosivo, la sapienza con cui, con pochi tratti, restituisce personaggi a tutto tondo, come la dama, il cicisbeo, il debosciato della sua straordinaria descrizione della festa di una società estenuata e corrotta, per tanti versi simile alla nostra;  e infine Leopardi, l'empirista e l'unico vero materialista della nostra storia letteraria, come dice Brioschi, m'ha mostrato, al pari di Brecht, come il pensiero possa distendersi nelle cadenze dei versi in una forma altrettanto precisa della filosofia che ti è cara e di cui mi sei maestro.
Ma, si parva licet, c'è una grande affinità fra i Canti di Leopardi ed il libro che vi apprestate a leggere. Una affinità formale che riguarda la coralità delle voci che nelle due opere si affacciano: Giacomo, Bruto, Saffo, il pastore errante, Simonide... nei Canti. Io, Calcante, Monsieur Aghion, Margherita, Ulisse... ne L'altezza del gioco. E un'affinità sostanziale perché entrambi i libri hanno come protagonista il tempo, e il tempo inteso non come ____, il tempo trascendente dell'essere, ma proprio come ______, il tempo che ci va dissipando e sfuggire al quale, come dicevo poc'anzi, costituisce per un poeta, per un artista la posta più alta del gioco.
   

MAB: Io so bene che gli artisti e gli scrittori veri non riconoscono maestri nei loro contemporanei. Mio zio Sergio Bonfantini, il pittore, aveva però considerazione per qualche connazionale più anziano: per certi temi o 'trucchi', beninteso, più che per la poetica o la visione del mondo in generale. Così, stimava Sironi rilevante, e persona da cui aveva imparato più che dal suo maestro 'di bottega' Casorati.
E tu? Da chi hai imparato? Da Montale non direi. E fra gli stranieri? Hai un debito  forse un po' strano con Ezra Pound? E, magari più riconoscibile con certo Enzesberger?

Giulio: E invece da Montale ho imparato molto, il senso della misura, della decenza in un'epoca di tromboni e cartapesta come quella in cui scriveva durante il fascismo. E proprio in questo mattino presto di giovedì 20 marzo 2003, mentre da poche ore è scoppiata una guerra dagli esiti imprevedibili, e comunque catastrofici,  la sua lezione mi torna in mente ancora più forte di fronte alla galleria di piazzisti, pagliacci, delinquenti che la televisione ci mostra ogni giorno e che sarebbe la classe dirigente di questo sventurato paese. Senza contare il mio tema preferito, il rapporto suono-senso: "Buffalo", dice da qualche parte "Eusebio", "e il nome agì..." Fortini, che ho avuto la ventura di incontrare per la prima volta a 18 anni in certi garage frequentati dai Quaderni rossi, dove la mia ribellione cominciava ad assumere sfumature rivoluzionarie, è stato invece l'esempio dell'impegno, di quell'engagement che Sartre ci aveva insegnato e di cui Franco è stato il campione più coerente fino all'ultimo in Italia.
Con "Zio Ez" il debito c'è, e come! Mi ha insegnato che la poesia è un edificio che può essere costruito coi materiali più disparati, nessuno dei quali è, a priori, "antipoetico", come vorrebbero i piccoli orfei nostrani.

E poi, come non avere simpatia per un poeta il quale a Mussolini che gli chiedeva "Pound, cosa posso fare per voi?", durante un incontro che l'americano aveva a lungo mendicato, rispondeva: "Non fate la guerra Duce: lasciatemi il tempo per finire il mio poema"?
Enzesberger è stato per me il conservatore che ha consegnato la storia del novecento in quel vero e proprio museo delle cere che è il suo Mausoleum. E serbare la memoria non è forse uno dei compiti della poesia che, non a caso, gli antichi consideravano figlia di Mnemosine?
E infine Nanni Balestrini: è stato un incontro tardivo, attorno agli anni 80, quando ormai pregi e difetti mi si erano consolidati nel volto e nella fisionomia che mi sono costruito. Ma non meno significativo quell'incontro perché, da una parte mi confermava l'importanza di quello strumento del "montaggio" di cui ti parlavo e dall'altra mi rivelava la possibilità e la capacità della cosiddetta "avanguardia" di uscire dal recinto degli spettrali ed esangui cruciverba cui spesso si condannava, e sciogliersi in un canto civile ed appassionato, come avviene in Blackout.
Tutta quella folla che, nel poemetto di Nanni, si riversa per le strade, nella New York del black-out del '78, e sfascia, e rompe, e ride e canta è una delle immagini più potenti di ciò che succede quando quelli di "bassa condizione", come dicevo nei miei lontani versi infantili, acquistano coscienza della loro forza.
Così come il canto della mia Allodola, che conclude il libro che state per aprire, rovescia le certezze che mi erano state insegnate da bambino, paga la promessa che ho fatto alla rassegnazione dei miei genitori e attesta che la rivoluzione è avvenuta. Almeno in poesia.
Ma non dice Kunert che dietro la poesia avanza il futuro?
 

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info@pernondimenticare.net (enzo) GLI INTERVENTI Sat, 04 Apr 2009 19:08:50 +0000
A CIASCUNO IL SUO https://www.pernondimenticare.net/interventi/463-a-ciascuno-il-suo https://www.pernondimenticare.net/interventi/463-a-ciascuno-il-suo Al Sindaco, al Prefetto, al Questore
C’è ancora qualcuno in Italia che non crede che esista un pericolo fascista. Di certo c’è il problema dei fascisti. Installati al Governo per tutto il periodo berlusconiano i fascisti hanno rialzato la cresta. Dichiararsi fascisti e fare apologia di fascismo non è più una vergogna nè un reato (malgrado lo sia). I fascisti sono tornati a assaltare le sedi degli oppositori, le riunioni antifasciste, a gridare contro la Costituzione e aggredire verbalmente i partigiani, che rievocano la Resistenza e la viltà dei fascisti alleati dei nazisti occupanti l’Italia. Vengono apertamente assaliti esponenti e militanti della sinistra, picchiati gli omosessuali, violati i luoghi della memoria della Resistenza e della Costituzione. Così cominciò il Fascismo.
]]> info@pernondimenticare.net (Administrator) GLI INTERVENTI Fri, 27 Apr 2012 14:35:06 +0000 L'Istituto per il turismo di Milano viene intitolato a Claudio Varalli a 26 anni dalla sua uccisione https://www.pernondimenticare.net/interventi/329-listituto-per-il-turismo-di-milano-viene-intitolato-a-claudio-varalli-a-26-anni-dalla-sua-uccisione https://www.pernondimenticare.net/interventi/329-listituto-per-il-turismo-di-milano-viene-intitolato-a-claudio-varalli-a-26-anni-dalla-sua-uccisione L'Istituto per il turismo di Milano viene intitolato a Claudio Varalli a 26 anni dalla sua uccisione

Il 16 e 17 aprile sarà il 26^ anniversario dell'assassinio di Claudio Varalli e Giannino Zibecchi, uccisi a Milano da un fascista il primo e dai carabinieri il secondo. In quella fase della storia politica italiana - il 1975 - era fortissimo lo scontro tra chi voleva costruire una società più giusta e compiutamente democratica e chi difendeva un modello sociale chiuso a qualsiasi evoluzione e arroccato attorno ai privilegi delle classi al potere. Ancora oggi l'Italia non ha portato a compimento una coerente evoluzione che permetta a tutte le componenti sociali di esprimere e affermare aspirazioni e bisogni; oggi corriamo il rischio concreto di vedere ribaltati i principi fondativi di questa Repubblica nata dalla presa di coscienza popolare antifascista.

Da quell'aprile 1975 noi, un gruppo di amici e compagni dei due giovani uccisi, ricordiamo ogni anno l'assassinio di Varalli e Zibecchi perché le motivazioni che li hanno spinti ad affermare valori umani e sociali sono una scelta nobile e valida ancora oggi. Lo scorso anno abbiamo creato un sito Internet - www.pernondimenticare.com - dove è possibile trovare documenti, testimonianze e analisi sulla vicenda di Varalli e Zibecchi e su quanto ha significato la lotta politica delle forze progressiste in quegli anni nel nostro Paese.

Come noi altre realtà hanno scelto di aprire siti Internet dedicati agli altri caduti nella battaglia per la democrazia, gettando le basi per creare una rete della memoria capace di tramandare alle nuove generazioni il significato di una battaglia che ancora oggi ha bisogno di slancio e convinzione. Questo è l'obiettivo che ci poniamo per i prossimi anni. Per il 26^ anniversario abbiamo deciso di organizzare alcune iniziative.

Venerdì 20 aprile alle ore 21 presso l'auditorium di Radio Popolare, via Ollearo 5, si terrà un incontro dibattito sul tema: "memoria, verità, giustizia". Intervengono Gigi Mariani avvocato, Aldo Aniasi sindaco di Milano nel '75, Gianni Barbacetto giornalista di Il Diario, Michele Mozzati (Gino & Michele), Layal Andreoletti studentessa dell'Istituto per il turismo, Danilo De Biasio Radio Popolare.
La fotocronaca della serata

Sabato 21 aprile alle ore 9.30 si terrà un'assemblea presso l'Istituto tecnico per il turismo, la scuola frequentata da Claudio Varalli nel '75 e che per l'occasione sarà ufficialmente intitolato al suo nome. Intervengono Piero Scaramucci, Giovanni Impastato, Roberto Tumminelli.
La fotocronaca dell'assemblea

Il 17 aprile, dalle ore 17.30 alle 19.30 saranno poste corone di fiori alle lapidi in piazza Cavour, piazza Santo Stefano e corso XXII marzo.

Gli amici e i compagni di allora e di sempre
www.pernondimenticare.com

Rassegna stampa aprile 2001]]>
info@pernondimenticare.net (Administrator) GLI INTERVENTI Thu, 02 Apr 2009 20:55:30 +0000
La rapina primordiale https://www.pernondimenticare.net/interventi/330-la-rapina-primordiale- https://www.pernondimenticare.net/interventi/330-la-rapina-primordiale- LA RAPINA PRIMORDIALE

di Roberto Tumminelli

Articolo pubblicato su Il Giudizio Universale N.12, aprile 2006. Il Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1967 (6a edizione) vol.I, Introduzione di Maurice Dobb.
Capitolo ventiquattresimo. La cosiddetta accumulazione originaria, pp.777- 826

 

Marx, Heinrich Karl (Treviri 1818 – Londra 1883)
Filosofo, storico, economista e rivoluzionario
Opere più conosciute: tutte, anche i manoscritti
Opera maggiore: Il Capitale
Opera più famosa: Il Manifesto
Origine ideologica: filosofia hegeliana, J.J.Rousseau, economia classica.
Grande amico: Engels, Friedrich (Barman 1820 – Londra 1895)


Non regge proprio: le robinsonate
Influenza: su tutto il mondo moderno, nel bene e nel male

 

 

Quando c’è un profitto proporzionato il capitale diventa audace. […],
non ci sarà nessun crimine che esso non arrischi, anche pena la forca

(T.J. Dunning, citato da Marx)

 

Nascosta nella settima e ultima sezione del volume primo del Capitale (1867) di Karl Marx si trova una gemma che consente di gustare alcune delle più efficaci pagine di storia economica mai scritte, e anche di cogliere il peccato originale del capitale. Questo prodigio è il capitolo XXIV, quello dedicato alla cosiddetta “accumulazione originaria”.

Marx parte dalla convinzione che per funzionare il sistema della produzione capitalistica ha bisogno di due cose: 1) gli operai che hanno solo la “merce lavoro” da vendere, 2) i possessori dei mezzi di produzione (il capitale), che possono comprare questa merce lavoro e accumulare profitto.

La domanda che si pone Marx è: come ci si è arrivati al “sistema” capitalistico? Come è stato possibile “accumulare capitali” (mezzi di produzione) prima del sistema capitalistico e nello stesso tempo come è avvenuta la progressiva separazione dei lavoratori dalle condizioni del proprio lavoro e della propria esistenza. Occorre presumere una fase storica non capitalistica nella quale si è verificata una accumulazione di capitale “originaria”. Gli economisti classici descrivono l’accumulazione originaria di capitali come un qualcosa di idilliaco. Una specie di big–bang originario dell’economia con partenza di tutti alla pari e poi, da una lato una “élite intelligente e risparmiatrice, e dall’altro degli sciagurati oziosi che sperperano tutto il proprio […]. Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e gli altri non hanno avuto, all’ultimo, altro da vendere che la propria pelle”. Gli operai di oggi, secondo questa analisi, non sarebbero altro che gli infelici e numerosi eredi di quegli spreconi! Di fatto, i metodi dell’accumulazione originaria sono tutto quello che si vuole fuorché idillici, ”la parte importante è rappresentata dalla conquista, dall’assassinio e dalla rapina”, in una parola, “dalla violenza”.

A partire da questo punto Marx scrive un meraviglioso testo di storia economica sulle trasformazioni sociali avvenute a partire dal 1300 1400, una interpretazione complessa e geniale che capovolge tutto quanto si era creduto fino allora. L’espropriazione dei contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo”. In questa lunga fase il lavoratore non è un “operaio semplice”, egli lavora in manifatture o in laboratori dove è assistito dal lavoro di molti suoi famigliari. Possiede abilità specifiche, capacità, qualità che spesso riesce a trasmettere ai propri discendenti. E si trova all’interno di un “sistema”, quello della società pre-capitalistica, che non contempla l’esistenza e la sopravvivenza dell’individuo isolato. A qualsiasi livello sociale. Dall’artigiano all’aristocratico c’è sempre un “gruppo” sociale che in qualche modo protegge, assicura, garantisce il singolo individuo. E’ un sistema di solidarietà, orizzontali e verticali, che viene letteralmente scardinato nel giro di due secoli attraverso un processo di espropriazione e di appropriazione descritto da Marx con limpida efficacia, cura delle fonti, spunti acuti e scintillante sarcasmo.

Tre gli elementi storici decisivi: 1) il fenomeno delle enclosures e il conseguente movimento di masse umane verso le città e i borghi; 2) lo spostamento di capitali avvenuto durante la glorious revolution (1648 – 1688); 3) il dominio coloniale e i colossali proventi derivanti dal commercio e dallo sfruttamento degli schiavi.

Per tutta questa fase plurisecolare, la popolazione rurale, espropriata con la forza, viene spinta, con leggi fra il grottesco e il terroristico, a sottomettersi a forza di frusta, di marchio a fuoco, a quella disciplina che è necessaria al sistema di lavoro salariato. La rivoluzione agricola si ripercuote sull’industria e crea un mercato interno per il capitale industriale. Un incastro provvidenziale!

E poi le colonie. Il tesoro catturato fuori d’Europa direttamente con il saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio rifluisce in madre patria e si trasforma in capitale. Infine Marx tratta dei metodi per aiutare il capitale utilizzando il denaro di tutti, la degenerazione morale delle classi dominanti. Le nazioni, denuncia Marx, compiono cinicamente ogni infamia che possa rappresentare un mezzo per accumulare capitale. L’”arcano” dell’accumulazione originaria è svelato, il peccato originale che presiede la nascita del capitalismo, “questa opera d’arte della storia moderna”, è individuato. Si tratta semplicemente di rapina. “Marx è superato!”, scrivono da 150 anni i suoi critici. Ma la storia se ne frega dei critici e continua a dare conferme delle teorie del filosofo tedesco.

 

Roberto Tumminelli

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info@pernondimenticare.net (enzo) GLI INTERVENTI Sat, 04 Apr 2009 18:48:34 +0000
L’altra Parte https://www.pernondimenticare.net/interventi/331-laltra-parte https://www.pernondimenticare.net/interventi/331-laltra-parte Milano – 12 dicembre 1970

L’altra Parte

di Roberto Tumminelli

Da PIAZZA BELLA PIAZZA - ed. Nuova Iniziativa Editoriale, 2005, pag. 85-96

È una giornata strana, lo è fin dall’inizio. Ci siamo messi a tridente ma i tre vertici comunicano solo lentamente. Noi siamo disposti in Santo Stefano, e le grida, i rumori, le esplosioni secche dei lacrimogeni, tutto arriva smorzato e attutito, in qualche modo disinnescato dall’enorme edificio che ci divide dagli scontri. Non più di cento metri, in linea d’aria, ci separano dai compagni del “mucchio selvaggio”, ma i metri reali sono molti di più, perché in mezzo c’è la massa dei palazzi situati fra via Bergamini e piazza Santo Stefano, una massa cospicua e inerte, capace di nascondere e ritardare la rivelazione, la conoscenza, l’informazione su quanto sta succedendo dall’altra parte. Sul terzo fronte ci sono quelli che presidiano largo Richini, gli studenti medi. Una cosa è sicura, noi dobbiamo stare qui, in Santo Stefano, e tenere bloccata la situazione.

Ho dormito due ore, forse, questa notte. Sono stato su con Anna, implacabile secchiona carina da morire, che mi costringeva a ripetere e ripetere Canetti, Marx, Lukacs, e solo alla fine, ma erano ormai le tre, il premio più ambito, le sue labbra morbide sulle mie, il calore del suo corpo sottile, una carezza… Ma adesso sono fisicamente provato, pieno di adrenalina benedetta che mi sostiene mentre tengo gli occhi bene aperti.
Che li avrebbero spinti addosso a noi, gli anarchici intendo, che li avrebbero attaccati e “usati” per venirci contro lo avevamo previsto e per questo eravamo preparati a difenderci dalla polizia intorno alla Statale. Da largo Richini, da via Bergamini, in piazza Santo Stefano.

Proprio qui, su Santo Stefano, c’erano state infinite discussioni con il vicequestore. Noi dicevamo che in piazza restavamo noi e loro stessero sulla via Larga e loro invece a dire che noi dovevamo al massimo stare su via Festa del Perdono e loro nella piazza. Alla fine era venuta fuori questa situazione assurda, che noi e Polizia stavamo tutti in piazza a fronteggiarci, bardati come guerrieri antichi. Noi, il servizio d’ordine del Movimento Studentesco, e a pochi metri loro. A scrutarci, squadrarci, ingaggiare duelli di sguardi d’acciaio.

E io sto lì da un bel po’, a fissare questi estranei in divisa, occasionali e ostili abitanti della mia piazza. Ho in testa un vagabondare di pensieri, non particolarmente profondi, ma numerosi, un piccolo esercito completamente fuori dal contesto che mi circonda, ma che tuttavia devo proprio riconoscere come mio. Individui mentali che si raggruppano, si allineano, si confondono di nuovo per poi riordinarsi di colpo, come rondini e storni quando vagano a centinaia, la sera, apparentemente incerti se partire o rimandare, costruendo arabeschi e disegni infiniti nell’aria fresca di settembre.

Mi naviga nella mente il gatto dell’Agnese, quella descritta da Renata Viganò. Lei, l’Agnese, aveva una gatta grigia e gliela aveva ammazzata un tedesco per gioco. Un modo di scherzare molto militare. Ma l’Agnese, che non era spiritosa, non così, in ogni caso, ammazzò il tedesco, per poi scappare in brigata, dove rimase. Chissà perché ci penso. Forse perché anche io ho una gatta grigia. E intanto contemplo i poliziotti bardati e scalpitanti, belli carichi di ormoni e pronti, così sembrerebbe, per farci il culo. Ma galleggia anche il fantasma dell’esame di Morale, fissato fra quattro giorni. E io oggi sono qua, a passare mattina e sera a guardare turgidi poliziotti, a interpretare il guerriero in piazza, e ieri tutto il pomeriggio alle riunioni e il mattino a fare la supplenza. Eppure questo esame mi serve per farci la tesi, devo prendere un bel voto, e cerco di ripassare mentre osservo il vicequestore che continua a andare avanti e indietro fra via Larga e la piazza. Cosa è l’ortodossia marxista? Eh? Mi verrebbe voglia di chiederlo a lui. È il metodo dialettico, ovviamente, solo la dialettica garantisce il nocciolo d.o.c. del pensiero marxiano, dice Lukacs. E Canetti? Perché il prof è fissato su Canetti e sulla sua cazzuta teoria circa l’origine del potere, sul comando, originario e immediato, insito nel ruggito del leone: «Scappa o ti uccido!»
Nelle orecchie emerge sussurrante la voce roca di Anna che mi spiega, senza possibilità di replica, che «la svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose». Lo dice il “giovane Marx”.

Così mi faceva ripetere ieri sera, la mia amata tiranna dalle labbra di rosa: «Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci». Anna insiste e fuma più sigarette di Yanez: se sostituiamo il termine “operaio” con il termine “lavoratore dipendente”, oppure “risorsa umana”, e diamo all’“oggettivazione” il significato estensivo che le compete, continua…, mentre il vicequestore si agita chissà perché, e lei, Anna, annuisce con sguardo serio, il quadro risulta adeguato anche all’analisi del lavoro oggi. Quanto mi piace il modo energico in cui soffia dalle labbra il fumo dell’ennesima sigaretta e mi bacia passandomi una mano fra i capelli. Mi sento svenire per il sapore dolce della sua lingua mescolato all’amarognolo della nicotina. Il fumo, ad Anna, fa bene.
La testa mi scoppia, fa freddo ma non lo sento, il vicequestore è sempre più preoccupato e discute con un graduato in divisa. Anna, la bella ideologa, finisce il mio discorso: il proletariato si è internazionalizzato, la divisione del lavoro avviene su scala planetaria…. in Occidente, una maggioranza di metechi, di perieci e di iloti serve fedelmente il capitalismo, l’imperialismo, il razzismo, insomma, lo “sviluppo”, cioè l’orrore, vende la propria esigua coscienza per una cospicua fetta di prodotti di consumo…
Alla fine, solo alla fine, Anna scioglie il suo bruno sguardo severo in un sorriso magico che cerco disperatamente di non far dissolvere nell’immagine del vicequestore e dei suoi scagnozzi.
Sto cercando di non dimenticare di essere uno studente. Ma non è giornata. Fa freddo, fa grigio, i fascisti hanno convocato una manifestazione in piazza Fontana, noi anche, l’ANPI ha convocato un comizio, gli anarchici vogliono manifestare per Valpreda e per commemorare Pinelli. Insomma una giornata da pazzi, il 12 dicembre 1970.

«Senti, è successa una cosa…» Il ragazzo mi guarda stravolto. La giubba imbottita di tipo militare che lo fa sembrare ancora più grosso è allacciata, lui spinge gli occhi per farli uscire dalle orbite, suppongo. I capelli gli stanno su dritti come fossero anche loro per aria impressionati dalla cattiva notizia. Lo guardo.
«Giorgio mi ha detto di dirti che di là,» e fa un cenno con la testa verso la via Bergamini «è morto un compagno… l’ho già detto a Toscano e Capanna…»
«Occazzo…!»
«Sì, sì, era con noi, era lì con noi che tiravamo i sassi e ha preso un lacrimogeno proprio nel petto.»
«Sei sicuro che è morto?»
«Giorgio dice di sì, sì, è sicuro…»

Gli hanno sparato un candelotto nel petto! Nel petto! Ma che cazzo di posto è, penso, ma che paese, che persone sono queste! Ma come fa a venirti in mente che puoi sparare un candelotto a altezza d’uomo in mezzo alla gente? Ma quale abisso di odio o ignoranza può spingere un ragazzo, un uomo, anche se infilato in una divisa - cosa che non ha mai reso migliore nessuno - a sparare un candelotto in mezzo a una folla di manifestanti, che sono gente come te, del tuo fottuto paese, che lotta per i diritti propri, per quelli dei lavoratori, delle donne, magari anche per i suoi, del poliziotto e dei suoi parenti.
Certi giorni sono proprio segnati. Un anno fa la strage nella banca, adesso un ragazzo muore per il candelotto, i fascisti ci aggrediscono di continuo….

Sento Luca che dice in modo concitato che «se solo si agitano li carichiamo!», e parla dei poliziotti che abbiamo davanti. Poi mi guarda e aggiunge «stiamo calmi». Decidesse un po’ cosa vuole! Calmo sono calmo, ma sento come un senso di irrealtà. In un angolo della coscienza qualcosa sta montando, forse una richiesta di incazzatura, e anche una domanda. Ma chi si credono di essere questi per giocare così con la vita degli altri? Io non li riconosco come simili. Discendo da un altro ceppo animale, ho altre origini, altri cromosomi. Puttana il clero! Questa non è una guerra, loro lo sanno? Si tratta di gente che manifesta legittimamente, come scritto nella Costituzione, libertà di manifestazione. Se ci scontriamo, ci si aspetta qualche manganellata, qualche botta, una pedata, anche i lacrimogeni, su, per aria, che poi scendono, ma non che te li sparano addosso. Invece, è sempre così. Gli danno l’ordine di spararceli addosso! E fanno male. A Enzo hanno rotto un piede con un candelotto, a Camillo ne hanno sparato uno nel rene che quando avrà cinquant’anni se lo ricorderà ancora. Oppure ti travolgono con le camionette come il povero Ardizzone. Anche nel luglio 1960 ne hanno ammazzati un bel po’ di manifestanti, quella volta a rivoltellate, per difendere il tentativo di Tambroni di portare i fascisti al governo! In banca, qua dietro, un anno fa hanno fatto sedici morti e poi Pinelli che, secondo i questurini, come Icaro tenta di volare e “salta” dalla finestra. In Questura con la stanza piena di funzionari! Ora questo ragazzo lo hanno ammazzato con un candelotto. Cerco di frenare la concitazione interiore. Vorrei apparire impassibile. Mi sembra che una nebbiolina trasparente ci avvolga e tolga consistenza alla scena. È sempre così, quando qualcuno muore ammazzato la consistenza del reale si liquefa, svanisce, le cose si confondono, resta solo l’immensa ingiustizia della trasgressione più vile, l’omicidio politico.
Adesso tutti sanno quello che è successo, e i compagni inquadrati cominciano a insultare pesantemente i poliziotti a pochi metri. Nello stesso tempo devono, dobbiamo, tenere a bada chi è dietro per evitare che scaglino pietre o altro. La tensione sale al massimo mentre in Bergamini la battaglia infuria. Il corpo del ragazzo è in ospedale per l’estremo tentativo. Ma i compagni dicono che era già morto quando l’ambulanza è partita. Odio, pensieri di odio, pensieri di sangue che non torneranno mai indietro si mescolano allo sgomento, e anche a un sentimento sottile che penetra sottopelle, la paura. Una domanda incombe, continua a premere: ma che Paese è? Perché il potere deve avere questa ghirba assassina? E i “benpensanti” come mai continuano a benpensare le stesse stupide e oscene cose, a scandalizzarsi per qualche orrore, da Auschwitz a Portella della Ginestra, per poi subito dimenticare e di nuovo stupirsi per qualche altro corpo privo di vita, sacrificato in nome dell’ordine pubblico, democratico, aristocratico o nazi che sia? È successo così per le atrocità naziste e fasciste, eppure siamo ancora alle prese anche con i nazisti e i fascisti!
Ma perché un ragazzo, un ragazzo come me, della mia età, o di meno o di più, deve essere fascista? Come mai ha idee o miti o pensieri di morte, di ingiustizia, come mai ama la gerarchia, l’ordine, la merda sadiana, la tortura, le camere a gas, l’orrendo quadro evocato dalle Centoventi giornate di Sodoma, rivelatrice profezia letteraria!
La gioventù è forza traboccante che detesta freni e barriere, odia i privilegi, vuole che tutti stiano bene, aiuta i meno fortunati. Ma questi chi sono? Non ci sono venuti a dissotterrare Firenze dal fango dell’alluvione? Non hanno letto nemmeno una pagina di Don Milani? Perché uno si entusiasma per le infantili sciocchezze che scrive Evola e non si innamora di Hesse?
Ha ragione Pesce, quando descrive i fascisti come un’altra razza, briganti che si eccitano nell’osceno gesto di dare la morte, sbarbatelli feroci vicino a delinquenti avvezzi al sangue e ai massacri. Che ridono dopo aver sterminato quindici persone in piazzale Loreto. Ricordo, le ho scolpite in mente per sempre, le parole di Pesce: «Loro ridono. Hanno appena ucciso quindici uomini e si sentono allegri. Contro quel riso osceno noi combattiamo.»
È un’altra razza. Non hanno diritto al perdono! Bisogna solo neutralizzarli.

Mi torna alla mente la sera in cui ho conosciuto Pesce. Sì, Giovanni Pesce. Alla biblioteca rionale di Calvairate. Anzi al deposito atm di via Lombroso. Alle nove di una sera di poco più di un anno fa, eravamo una sessantina, riuniti e equipaggiati per rispondere alle provocazioni dei fascisti per una manifestazione convocata nella biblioteca, quella di via Ciceri, affacciata su piazza Martini. Noi radunati al deposito, a circa 800 metri. Pieni, pienotti di sassi e altri oggetti di difesa, con i caschi nuovi appena comprati tutti insieme con lo sconto, circondati da un miliardo di ps e dal solito vicequestore, uno con la faccia da biscazziere, poveruomo, non quello che ho davanti adesso. Praticamente fregati. Luca che cercava di trattare il nostro avvicinamento alla biblioteca, mentre tutto quello che il vice voleva fare era disperderci o arrestarci, voleva far valere la forza, la durezza dei suoi mezzi, dei suoi uomini, dei manganelli e altro. Gliene fregava assai a lui dei fascisti alla biblioteca!
In quell’ora in cui le ombre diventano imponenti e i colori del giorno sono ormai assorbiti dalla notte, solo due pallide lampade in alto a illuminare il nostro gruppo di disperati, compatti, spalla a spalla, accostati al muro altissimo e senza finestre del deposito atm, quasi a cercare protezione. Stavamo intruppati, vicini vicini, decisi a… non lo sapevamo nemmeno noi a cosa, forse aspettavamo solo di essere trasferiti in carcere, ma stavamo là, cupi, pronti, con dipinta sui volti un’espressione determinata e contratta, la protervia della disperazione, che compariva e spariva nelle luci intermittenti.
Tutto a un tratto, il miracolo. La situazione si sblocca. Come in una visione, nel buio rotto solo dalle minacciose luci blu dei mezzi della polizia, sopraggiunge un uomo in età matura, di bassa statura, in giacca e cravatta, snello e dall’aria decisa, che senza indugi si rivolge al vicequestore con disinvolta sicurezza: «Sono la medaglia d’Oro Giovanni Pesce.»
Il funzionario gli risponde subito in tono deferente. Lo conosce, sa chi è, e gli chiede il perché della sua presenza. Pesce gli spiega quello che il funzionario già sa e che tuttavia ascolta con attenzione.
«I ragazzi», cioè noi, «vogliono partecipare all’assemblea alla biblioteca di Calvairate, c’è il timore di provocazioni… I ragazzi sono stati invitati da noi».
Fissavo incantato quel mito vivente, il comandante partigiano Visone, il gappista che aveva raccontato le sue gesta e quelle dei suoi compagni in Senza tregua. La guerra dei gap, l’uomo che aveva compiuto imprese di sovrumano coraggio… che entrava nei ritrovi dei nazisti e del fascio, sparava con una rivoltella, colpiva infallibile e fuggiva in bicicletta, nella nebbia di Milano… o di Torino...
Quel giorno, invece, di nebbia ce n’era poca anche se era novembre, ma l’arrivo di Visone aveva rovesciato i rapporti di forza, aveva creato un’atmosfera che modificava progressivamente la situazione, che sembrava portare una qualità magica che trasfigurava tutto e cambiava le carte in tavola, anzi, le regole del gioco. L’uomo, Visone, mi sembrava avvolto in un raggio di luce, e crescere, levitare, sovrastare tutti e tutto. Mi sembrava, ma non sembrava solo a me, sembrava a tutti noi, ma credo anche a “loro”, ai “garanti dell’ordine pubblico”, un gigante che discorreva con degli umani. E il vicequestore annuiva, cercava di resistere all’autorevolezza di quell’uomo, delle sue nuove regole, della nuova atmosfera.
Una grande calma ci invase tutti quanti, distribuiva sicurezza persino agli uomini in divisa, dissolveva la paura, rassicurava… nemmeno il sonoro rimbalzo sull’asfalto di una mazza ferrata riuscì a spezzare l’incantesimo.
«Beh…» disse il vicequestore, «…se Lei garantisce… Medagliadoropesce», così, tutto di seguito, «se Lei si fa garante….»
«Certamente!» rispose Pesce arrotando la erre in un suo modo inconfondibile, «mi assumo tutta la responsabilità!»
Le divise grigie si aprirono e si andava formando uno strano corteo. Alla testa procedeva il piccolo grande uomo, il Comandante Giovanni Pesce, dietro di lui Luca, poi io e tutti gli altri, e così attraversammo viale Molise, con al seguito il vicequestore e i suoi ufficiali, poi circa duecento poliziotti, tre o quattro camion, una camionetta. L’insolito corteo prese a percorrere la via Calvairate e qualcuno, forse Aleardo, intonava le prime note di Bella ciao, e tutti le ripresero, cantando sempre più forte, e il quartiere rispondeva. Voglio dire che le finestre si aprivano e le donne e gli uomini affacciati cominciavano a cantare con noi e a applaudire e così cantando percorremmo la via Calvairate, scorrevamo lungo il bordo di piazzale Martini, per approdare felicemente in via Ciceri Visconti dove si trovava la biblioteca, dove c’erano un centinaio di persone che applaudivano il nostro arrivo alla testa della manifestazione.
Dei fasci nemmeno l’ombra (verranno più tardi!), ma Pesce fu veramente grande, fece un bellissimo comizio nella notte ricordando il dovere di tutti, popolo e istituzioni, di lottare contro la “barbarie nazifascista”, e ci aveva anche salvato le chiappe con brillante leggerezza.

Già, e adesso che cosa farebbe Pesce? Beh, lui oggi, 12 dicembre, è con l’ANPI, all’unica manifestazione autorizzata. Lo spiegava bene Di Nanni, uno degli eroi raccontati in Senza tregua, che l’arrivo della democrazia e della sua dialettica avrebbe reso difficile districarsi nei conflitti sociali e politici, che sarebbe stato complesso capire la differenza fra l’avversario politico e il nemico… addirittura fra amici e nemici. Eh sì, Di Nanni lo spiegava con parole profetiche. Ma io, noi, crediamo di conoscere bene questa differenza, sappiamo di dover sempre fare i conti con questo. Con le istituzioni, che tendono a restringere i diritti piuttosto che a garantirli, con la complessità della lotta politica… Ma loro? Gli altri? I fascisti che ci accoltellano e sparano, che ci aggrediscono in continuazione, loro sanno qualcosa? E gli avversari politici, e le “forze dell’ordine”, la conoscono questa differenza? E se la conoscono, come è loro dovere, perché ci ammazzano con candelotti e camionette? E il generale dei Carabinieri che ha tentato il colpo di Stato qualche anno fa? E quelli che hanno messo le bombe in piazza Fontana? Quelli evidentemente non sanno niente, nemmeno la differenza fra un cittadino e la carne da macello… ed è poco ma sicuro che non erano della nostra parte, non anarchici, non di sinistra…

Intorno a me la situazione continua a peggiorare. Luca non torna più, i gruppi di poliziotti schierati davanti a noi hanno l’aria baldanzosa, i compagni gridano, dalla strada, da via Larga arrivano urla e scoppi e io non so più come gestire la situazione. Avevamo deciso di non attaccare, di non aprire un altro fronte e la decisione politica non è cambiata nel corso degli eventi. Il vicequestore che ho davanti sembra avere avuto la stessa disposizione.
Ma uno studente è stato ammazzato! Questo vuole ben dire qualcosa! Adesso poi ha anche un nome, Saverio Saltarelli, e un’età, che purtroppo non cambierà più. Non saprà niente o quasi della vita, sarà morto senza conoscerla, vittima della grottesca maledizione che lo ha portato inconsapevole al tragico appuntamento di via Bergamini.
Cerco di restare calmo. Poi mi decido, vado dal vicequestore e gli chiedo se sa che è stato ammazzato un ragazzo. Lo sa, mi risponde che gli dispiace, e sembra chiedermi con gli occhi quali sono le nostre intenzioni. Gli faccio capire che dipende dal loro atteggiamento.
«In che senso?»
«Nel senso che i compagni sono veramente incazzati!» E indico il gruppo alle mie spalle che rumoreggia e continua a insultare i suoi militi.
«Se c’è qualcosa che posso fare…»
«C’è,» gli dico a muso duro, «dovete andarvene dalla piazza!»
«Ho l’ordine di restare.»
Il suo sguardo è implorante. Sembra veramente contrito, dispiaciuto e per quanto ne so potrebbe anche essere sincero. Perché dovrebbe gioire della morte di uno studente, anche se compagno? Magari non è un varano e fa solo il funzionario. Mah. Non che il dubbio mi turbi più di tanto.
«Almeno faccia una cosa,» gli dico, «altrimenti non tengo più nessuno e qui succede il finimondo.»
«Mi dica….»
«Li faccia girare dall’altra parte!»
«Come dall’altra parte…»
«Verso la chiesa.»
Il funzionario tergiversa, dice che non è contemplato dal loro regolamento, e lo penso anch’io che non possono voltare le spalle ai manifestanti, specialmente in una situazione di questo tipo.
Eppure, mi sembra che stia per cedere. E poi ormai ho esaurito la pazienza, qui si rotola a valle, la forza delle cose sembra prendere il sopravvento. Gli dico che o lui gira i suoi uomini verso la chiesa, armi e bagagli, cioè senza niente più di puntato contro di noi, oppure….
«Lei mi dà la sua parola che…» dice guardandomi negli occhi, «che….»
Non ci credo, e non ci crederò per un pezzo. Li fa girare verso la chiesa di Santo Stefano e li tiene lì fino alla fine della giornata. Nessuno li attacca alle spalle, se non verbalmente. Per un tempo che sembra infinito i compagni vanno avanti a ritmare il grido Cagoni, assassini, pausa, buuum!
Arriva Luca trafelato e sudato, nel gelo, richiamato dalla parola d’ordine bizzarra e rimane sbigottito a fissare il groppone dei militi girati verso la chiesa.
“Che cazzo succede? Si sono girati? Sono impazziti?!” mi chiede in sequenza.
“Sono stato autorevole”, rispondo enigmatico spostandomi fuori tiro.
Con un piccolo, o grande, cedimento quel vicequestore si tira fuori dal modello antropologico dello sbirro senza cuore e senza cervello per cimentarsi con i problemi di una nuova umanità, più ricca e responsabile. Direbbe Canetti che invece di assorbire la spina del comando o di liberarsene trasmettendola ai suoi sottoposti, con il rischio di produrre qualche altro cadavere nella deriva mortuaria del nostro Paese, ha preferito la soluzione più difficile. Disobbedire. Così, la schizofrenia di una giornata cattiva si risolve con un ragazzo di ventitré anni ucciso dai poliziotti in via Bergamini e la polizia umiliata in piazza Santo Stefano. Quel vicequestore non è un varano, è un uomo, ma ha ancora ragione il compagno Di Nanni, l’eroe di Visone, in democrazia è difficile distinguere chi è il nemico. In questo groviglio inestricabile di interessi, di lobby, di gruppi di pressione, di stronzi organizzati, la coscienza del cittadino moderno, che nasce con un patrimonio di diritti e di doveri, consapevole di sé e degli altri, non perfetto ma migliorabile, rischia di annegare, si dilegua, si annulla, sparisce. Anche perché, nei conflitti sociali, spesso a ucciderti è l’arbitro.

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info@pernondimenticare.net (enzo) GLI INTERVENTI Sat, 04 Apr 2009 19:04:31 +0000
Aprile https://www.pernondimenticare.net/interventi/320-aprile https://www.pernondimenticare.net/interventi/320-aprile APRILE.

Capita, a volte, di imbatterci in giorni strani, smarriti in un'altra stagione e che subito evocano in questa sensazioni che non le appartengono.
Non esistono stagioni il cui ricordo, richiamato da queste giornate speciali, non provochi nostalgia. Ognuna di esse ha qualcosa che ce la fanno amare e anche l'inverno, per un bambino che aspetta con ansia il Natale, può essere la stagione più bella.
Altre volte però, questi giorni sperduti, arrivano come ospiti indesiderati che non aspettavamo più, che non volevamo più vedere.
In primavera ci possono essere giornate che ricordano l'inverno, quelle che vengono dopo il Natale però, quando ormai si attende solo la nuova stagione.
Ci sono stati mesi di aprile con la neve, residuo dell'inverno, della vecchia vita, mesi nei quali faceva un freddo più freddo. Un freddo cattivo, che sentiamo ancora più pungente e fastidioso perché ci coglie di sorpresa. Ostinato perché insiste per riportarci indietro, in quella stagione che volevamo lasciarci alle spalle, che credevamo dimenticata. Un freddo che doveva gelare quei fiori che illusi dalla primavera erano appena sbocciati.
Nell'aprile del 1975 l'inverno ricomparve improvvisamente e quello fu il mese più freddo e triste della mia vita.
Tutto cominciò esattamente il sedici di quel mese.
Ero appena rientrato a casa che ricevetti una telefonata da Marco:
- Hanno ammazzato un compagno, i fascisti hanno ucciso un compagno oggi.- disse subito.
Rimasi per un attimo in silenzio, fu come se si fosse spalancata improvvisamente la finestra e un soffio di aria gelida fosse entrato in casa. Mi voltai, ma no, non c'era nessuna finestra aperta, il freddo che era entrato dentro di me arrivava da quella cornetta che tenevo in mano.
- Ma come…cosa…cos'è successo?- balbettavo.
- Un gruppo di compagni ha avuto uno scontro con dei fasci, una di quelle carogne ha sparato e un compagno è morto.-
- Ma chi era? Lo conosciamo?-
- Non lo so, non so nient'altro. Ci vediamo domani a scuola, vieni mezz'ora prima, bisogna fare i picchetti, l'assemblea, non so…-
Aveva finito quasi urlando e aveva riattaccato. Era strano sentirlo gridare, era la prima volta che lo faceva.
Mi augurai che si fosse sbagliato, che quella non fosse una notizia sicura, magari quel compagno era rimasto solo ferito, ma non era così, il telegiornale confermò la triste realtà.
C'era stato uno scontro in piazza Cavour tra un gruppo di sinistra che tornava da una manifestazione per la casa e un gruppo di neofascisti che stava volantinando.
Uno dei neofascisti, Antonio Braggion, aveva sparato e un giovane di sinistra era morto.
Si chiamava Claudio Varalli, aveva diciassette anni, era uno studente dell'istituto per il turismo e la sua primavera, appena cominciata, era già finita.
L'incredulità e lo sgomento non facevano altro che aumentare la mia rabbia.
Non era giusto, non era possibile, ma come si poteva morire così, a diciassette anni?
Poi pensai che poco tempo prima avrebbe potuto capitare anche a me. Sarebbe bastato che quel fascetto che avevo rincorso e fermato invece di un coltello avesse avuto una pistola o che i compagni fossero arrivati tardi e sarei stato io, allora, a morire.
Cercai di immaginarmi il suo viso, come era fatto.
Chissà, magari lo avevo pure incontrato, a quella manifestazione oppure a un'altra. Forse lo avevo anche sfiorato, avevo percorso con lui qualche tratto di corteo. Anche la sua scuola era poco lontana dalla mia.
Tutto di lui mi parve improvvisamente vicino, simile, troppo uguale.
Quella notte feci fatica ad addormentarmi.
La mia immagine si sovrapponeva in continuazione a quella di Claudio e viceversa: rivedevo la scena da me vissuta dell'inseguimento al fascista con Claudio al mio posto e poi, in dissolvenza, la scena vissuta da lui con me al suo posto.
I nostri due volti, le nostre azioni e persino le nostre emozioni, si confondevano.
E infine lo vedevo li, steso a terra.
Pensai a sua madre, alla sua disperazione a come aveva appreso della morte di suo figlio.
Certo, queste sono cose che non si dicono subito, qualcuno telefona e racconta una bugia pietosa, dice che c'è stato un incidente, magari nemmeno grave, meglio andare a vedere però. E allora si prende in fretta una borsa, ci si caccia dentro le solite cose, il pigiama, un paio di ciabatte, lo spazzolino e si corre all'ospedale, magari con un taxi per fare più in fretta. Poi, quando si è li, si scopre che quella roba non serve più, allora ci vuole un'altra barella e poi le punture per calmare il dolore.
Mi addormentai anch'io.
Il giorno dopo eravamo veramente in tanti.
Assemblee veloci in ogni scuola e poi via, tutti in corteo a urlare la nostra rabbia, a chiedere giustizia.
Volevamo dividere la nostra rabbia, stare tra di noi, tra compagni, e dire a tutti che quello era un morto nostro.
Avevo proprio una gran voglia di andare a quella manifestazione.
Era una bella giornata di sole ma faceva tanto freddo.
Piazza Cavour era piena.
Il corteo, immenso, ci entrava dentro rabbioso come un'onda gigantesca che si abbatte sulla riva e spazza via tutto quello che trova.
Poi, improvvisamente, si calmava, diventava placida e dolente quando passava davanti a quel mucchio di fiori, al posto dove avevano ammazzato Claudio.
Allora si vedeva solo la schiuma, un mare di pugni chiusi levati al cielo, teste chine e un brivido lungo la schiena.
Proseguimmo, sapevamo dove andare, non c'era nemmeno bisogno di dirlo. Avremmo potuto arrivarci anche a occhi chiusi, portati solo dal nostro istinto e dalla nostra rabbia.
In Via Mancini c'era la sede dell'M.s.i. e da quel luogo, da troppi anni, uscivano i fascisti con le loro catene, i loro coltelli, le loro pistole.
Passammo da piazza Fontana, camminando si udiva soltanto il rumore dei nostri passi e quello delle saracinesche dei negozi abbassate in fretta.
Quando ci fermammo eravamo proprio di fianco al palazzo di Giustizia e il silenzio allora divenne perfetto, come quello che precede le grandi occasioni.
Il corteo si stava caricando come una molla gigantesca che sarebbe ben presto scattata, era come prendere la rincorsa prima di un salto, cercare la giusta concentrazione.
Mi guardai intorno, volevo vedere i miei compagni di classe, i miei compagni di cordone.
Alessio e Betti erano, se possibile, più attaccati che mai, lui le cingeva le spalle con il braccio come a proteggerla da qualcosa ancora da venire e lei nascondeva la testa nel suo petto, quasi a fondersi con lui.
Marco dondolava sulle punte dei piedi, puliva e ripuliva le lenti degli occhiali scuotendo la testa, lo faceva a intervalli regolari, meccanicamente.
Pozzo aveva le mani dietro la schiena, il capo fisso a terra e il mento appoggiato al petto, si vedeva solo il gran casco di capelli, sembrava più piccolo che mai, pareva un bimbo che attende un castigo.
Piero avrei potuto anche non guardarlo, sentivo la sua tensione da come mi stringeva il braccio, stava così, fermo, come se fosse fuso nel bronzo.
Casati invece aveva un sorriso strano e un lampo di follia disegnato negli occhi.
Ne venni attratto, mi avvicinai:
- Hai paura?-
Mi guardò con una espressione confusa, batté alcune volte le palpebre come se dovesse svegliarsi da un lungo sonno.
- Non bisognerebbe averne, no? Eh tu?.-
Sembrava quasi seccato, come se lo avessi disturbato da chissà quale profonda meditazione.
- Beh, un po' si…Hai sentito cosa è successo a Torino?-
Si, lo sapeva anche lui, la notizia aveva già fatto il giro di tutto il corteo. Un fascista aveva ucciso un altro compagno.
Fece un sospiro:
- Nella vita l'uomo è stato messo dentro per errore, non gli appartiene. Qualcuno la attraversa portandosi dietro il vago segno di una sublime predestinazione. Altri trascinano la loro vita in una mediocrità infinita alla ricerca di quattro soldi, di un po' di benessere.-
Era ossessionato dalla mediocrità.
Mi guardava con ostinazione ma con una totale assenza di espressione, sembrava che parlasse a se stesso, che continuasse la sublime riflessione dalla quale lo avevo distolto.
- Però nessuno ha il diritto di togliere la vita, di ammazzare.- provai a rispondere.
Sembrava di parlare con un busto romano che all'improvviso, con una voce che impressionava ancor di più perché generata da quella fissità, acquistava la favella:
- Da quando si viene al mondo si comincia a morire, la propria fine è l'unica certezza, lontana quanto si vuole ma sempre li, al limite di ogni vita, da sempre e per tutti. Vivere è prepararsi a morire e l'unica libertà sta nel decidere quando e come. Si può scegliere, e si può scegliere anche una bella morte.-
Non pensava ai compagni morti, parlava di sé, stava accarezzando la sua disperazione.
Era affascinato dalla morte, dalla bella morte che potesse riscattare una vita mediocre, ne parlava spesso, poco alla volta ma spesso.
In un'altra occasione mi aveva raccontato dell'espressione serena che Napoleone aveva visto sul viso del principe Andreij e io gli avevo risposto che quella era solo una sensazione dell'imperatore ma non mi aveva nemmeno ascoltato.
Non lo avrebbe fatto neanche allora, si lasciò andare a un sorriso lieve, ironico e doloroso allo stesso tempo, riprese quello sguardo da sognatore. Davanti a sé non vedeva più piazza Cinque Giornate ma si stendevano ormai i campi di battaglia di Austerlitz.
Tornai al mio posto, socchiusi gli occhi e aprii le narici con più forza, per ricordare meglio quel momento, per sentirne tutte le sensazioni e respirarne tutti gli odori. Forse eravamo a Waterloo e Casati non era Andrej ma Fabrizio Del Dongo.
Arrivò Vico. Lui si che sembrava veramente un generale, passava in rassegna le sue truppe prima dell'assalto decisivo.
Pareva tranquillo, doveva infonderci coraggio, ma dietro quella calma perfetta si intravedeva la rabbia a stento nascosta.
Non ci disse di tenere i cordoni quella volta. Non era necessario, eravamo già così stretti da farci male. I nostri pensieri, confusi nella medesima angoscia, si allacciavano.
Ci accarezzò con lo sguardo, forse voleva anche dirci qualcosa ma riuscii appena a sorriderci e proseguì nella sua ispezione seguito come sempre da Lucia.
Poi, improvvisamente, come ubbidendo a un ordine misterioso e silenzioso, i fazzoletti salirono a coprire il viso e i passamontagna scesero a coprire il volto.
Non tirava un alito di vento.
Le bandiere non sventolavano più, vennero sfilate e rimasero solo i bastoni. Spuntarono fuori come d'incanto dalle borse delle compagne bottiglie molotov e chiavi inglesi. Chi non aveva nulla prendeva sassi dalla strada, spaccava il pavé raccogliendo sanpietrini.
Il corteo finalmente si mosse, eravamo pronti.
La polizia era già schierata a difesa della sede fascista, anche loro erano pronti, ci stavano aspettando, le maschere antigas già sulla faccia.
Cominciò la battaglia e subito il fumo riempì la strada, anche il cielo divenne grigio.
Si sentivano ordini secchi e bestemmie, urla e slogan, canti di lotta e grida isteriche, il rumore soffice dei candelotti e quello volgare dei sassi.
Sembrava che quella volta ce la avremmo fatta a raggiungere il nostro obiettivo, poi accadde ciò che nessuno si aspettava.
Si sentirono le sirene, dapprima in lontananza poi sempre più vicino, troppo vicino, ma perché non si fermavano?
Vidi arrivare i camion dei carabinieri, impazziti, come se fossero senza guida. Entrarono sul corso senza rallentare, i compagni si spostarono in fretta, per non farsi investire. Qualcuno, passata la sorpresa, tentò di reagire, i sassi e le bottiglie trovarono un altro bersaglio. Davanti a me passò una camionetta col telone in fiamme, poi vidi un paio di compagni tirare giù un carabiniere da un'altra, colpirlo con le chiavi, ma i più scappavano.
Si sentivano anche colpi d'arma da fuoco.
Entrarono anche gli ultimi due camion della colonna. Li vidi salire sui marciapiedi, puntare diritti sui compagni.
Rimasi bloccato, sembrava volessero ammazzarci tutti, intorno a me nessun viso noto. Non c'era tempo per seguire consigli ricevuti cento altre volte.
E poi a cosa sarebbe servito tenersi sul bordo della strada o mettersi dietro un palo se quelli salivano sui marciapiedi? Non c'erano nemmeno portoni aperti in cui nascondersi o salite sulle quali arrampicarsi in corso ventidue marzo. Bisognava solo scappare.
Le compagne correvamo male, le donne non sono fatte per correre, erano quasi goffe con le loro borse a tracolla, sembrava facessero un gran fatica.
Una cadde proprio di fronte a me. Non so come ma la sollevai prendendola per un braccio. Era pallida e mi fissò con due occhi smisuratamente spalancati, stupita come se avesse visto per la prima volta la luce dopo anni di cecità.
Mi fece tenerezza, pensai che non avrebbe dovuto essere li, nessuno avrebbe dovuto essere li ma tantomeno lei e le altre compagne. Avrei voluto prenderla in braccio e portarla via, con tutte le altre, su un immenso tappeto volante.
Si era divincolata e aveva ripreso a correre, come tutti.
Iniziai a farlo anch'io, dapprima piano, come alla partenza di una maratona.
Poi uscii da quella sorta di trance in cui mi trovavo, e aumentai la velocità.
Correvo più forte che mai. Scappavo e basta, come se non avessi fatto altro per tutta la vita, come se fosse la cosa più naturale del mondo, l'unica da fare in quel momento.
Incespicai in qualcosa, appoggiai la mano a terra e riuscii a non cadere, il contatto col cemento mi diede una spinta formidabile, ripresi a correre ancora più veloce. Correvo come sanno farlo i bambini, mi pareva di toccare il suolo ogni cinque o sei passi con le gambe che ruotavano come un mulinello
Correvo come in un sogno infantile fatto troppo spesso: io che attraversavo un bosco scuro inseguito da un orco. Sentivo il suo alito animale vicino e le sue mani, le sue zampe, che mi sfioravano e allora correvo, scappavo senza voltarmi, per non dare un volto a quella cosa nera senza forma che ansimava dietro a me. Sentivo le tempie martellare, il sangue pulsare più forte. Provai una fitta bruciante al fianco destro e alle costole, la milza era ormai arrivata in gola. Volevo gridare ma il fiato non usciva, serviva tutto per correre, per fuggire via. Scappavo e basta, non pensavo nemmeno più, come se il farlo mi avrebbe tolto secondi preziosi. La paura era più forte della vergogna.
Quando mi fermai, quando mi dovetti fermare, ero arrivato in viale Campania.
Barcollai, dovetti appoggiare le mani alle ginocchia, il viso a guardare il marciapiede che sembrava ancora muoversi sotto di me, più molle di un onda. Avevo voglia di vomitare.
Così piegato mi girai indietro e vidi che dall'altra parte del corso saliva ancora il fumo, ripresi a correre.
Imboccai viale Campania, presi per viale Argonne e infine giunsi sotto casa. Mi voltai indietro per essere certo che nessuno mi avesse seguito.
L'orco era stato seminato anche quella volta.
Salii le scale e mi sedetti sull'ultimo gradino a riprendere fiato, non potevo farmi vedere conciato in quel modo.
Quando mi sembrò di essere uscito dall'apnea entrai e chiusi alle mie spalle anche il portoncino esterno, come facevo solo la sera, prima di andare a dormire.
Quell'odore strano, quell'odore che non sapeva di niente di particolare se non di casa mia, mi accolse e come sempre mi tranquillizzò, non del tutto però.
Mia madre aveva quella specie di sesto senso che hanno tutte le mamme, forse di più. Se starnutivo a scuola era capace, quando tornavo a casa, di chiedermi se avevo il raffreddore.
- Cosa è successo?- domandò agitata.
- Niente, niente, dopo il corteo sono arrivati i carabinieri e io sono andato via.- risposi a fatica.
Riuscii a sedermi, mi accorsi che le gambe mi stavano tremando
- Si, ma cosa è successo?- ripeté.
- Non lo so, sono scappato, non so niente.- mi stringevo nelle spalle per dare più forza a quello che dicevo.
- E perché sei ridotto così allora?-
- Sono stanco, solo stanco.- risposi scuotendo la testa.
Dopo un attimo di silenzio cambiò tono:
- Vuoi mangiare qualcosa?-
- No grazie, non ho fame.-
Conoscevo quel trucco: se fossi rimasto a tavola mi avrebbe interrogato fino a farmi crollare, e poi avevo lo stomaco chiuso, volevo solo rinchiudermi nella mia stanzetta. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, di sfogarmi, ma lei non era certo la persona adatta.
Mi sdraiai sul letto e finsi di dormire, era l'unico modo per respingere i suoi assalti, mi addormentai sul serio.
Quando mi svegliai era già li:
- C'eri anche tu?-
Mi stiracchiai fingendo indifferenza.
- Dove?-
- In corso ventidue marzo.-
Lo sbadiglio simulato mi si fermò in gola.
- Perché cosa è successo?-
Ma ormai era inutile fingere, la notizia si era già diffusa, quei camion impazziti saliti sui marciapiedi avevano ucciso uno dei nostri, un altro compagno era morto.
Si chiamava Giannino Zibecchi, aveva ventisette anni, era uno studente lavoratore.
Durante il telegiornale nessuno parlò e solo dopo cena mia madre mi chiese se il giorno dopo avrei potuto accompagnarla a fare la spesa, per aiutarla a portare le borse.
La guardai stupito:
- Domani vado a scuola.- risposi.
- Ma domani non c'è scuola, al telegiornale hanno detto che c'è lo sciopero generale.-
- Allora andrò allo sciopero.- conclusi seccamente.
Mio padre non disse nulla, non aveva parlato per tutta la sera.
Telefonai a Marco e a Piero e solo allora il mio dolore divenne completo perché l'avevo condiviso. Ci demmo appuntamento per l'indomani e andai a dormire.
Anche quella notte, la seconda, feci fatica a prendere sonno.
Era come se non fossi nel mio letto, lo sentivo strano, troppo alto o troppo basso, troppo morbido il materasso o troppo rigido il cuscino. Sul fianco destro o su quello sinistro, supino o diritto la sostanza non cambiava. Gli occhi non riuscivano a chiudersi. Rivedevo tutta la giornata appena passata ma quando arrivavo col ricordo a corso ventidue marzo tutto acquistava velocità, era come guardare le cose da un treno in corsa: ogni cosa si affacciava per un istante e poi scompariva per sempre nell'oscurità.
Finalmente mi addormentai.
Mi svegliai stranamente riposato, guardai l'orologio: era mezzogiorno, mia madre non mi aveva chiamato.
Mi alzai di scatto e arrivai in cucina come una furia, pensavo al corteo perso, ai compagni che non mi avevano visto, a cosa avrebbero detto di me. Lei era li, stava cucinando. Iniziai a gridare ma lei rimaneva impassibile, forse giunsi anche a minacciarla ma lei se ne stava li di fronte a me, calma. Sembrava l'argine di un fiume che deve trattenere una piena, aveva quella serenità di chi sa di aver compiuto il suo dovere.
Allora, improvvisamente, capii: il primo dovere di una madre è quello di proteggere i figli e lei, non svegliandomi, aveva pensato solo a difendermi, forse addirittura a salvarmi la vita.
Il mio dovere di militante era stato sconfitto dal suo e pensai, vergognandomi un po', che forse aveva ragione, era assurdo ma avrei potuto anche ringraziarla. Smisi di gridare.
Ai funerali di Giannino Zibecchi però ci andai, dovevo farlo. Mia madre non era spaventata della mia reazione ma pensava che almeno a un funerale non sarebbe accaduto nulla.
Giannino non aveva avuto una famiglia vera, anche i suoi genitori adottivi erano morti e mai si sarebbe immaginato che al suo funerale ci sarebbe stata così tanta gente, che tutta una città lo avrebbe adottato anche se in ritardo, anche se solo per un giorno.
Faceva caldo ma la dolcezza di quella sensazione faceva pesare ancora più la mia tristezza. I compagni non mi chiesero nulla, erano tutti silenziosi, anche Casati non parlò.
Tutte le strade lungo il percorso, dai Navigli fino in piazza Duomo, traboccavano di gente e di colori, era stato proclamato il lutto cittadino, Milano si era fermata per davvero.
Qualcuno cantava "son morti sui vent'anni, per il nostro domani, son morti come vecchi partigiani" e c'erano anche loro, i partigiani, quelli vecchi, ad accompagnare quello nuovo nel suo ultimo viaggio.
Qualcuno gridava "ora e sempre resistenza, ora e sempre resistenza".
La bara, coperta da un tappeto di fiori rossi passava lentamente tra quel mare di folla e come una barca che prende il largo verso lidi sconosciuti navigava per la sua città, scendeva di strada in strada verso il centro, arrivò in una piazza Duomo troppo piccola.
Quel giorno, come d'incanto, scomparvero le mie paure, quella dell'inseguimento al fascista e quella via Mancini.
In mezzo a quella moltitudine mi sentivo protetto e a mia volta sentivo di proteggere chi mi stava vicino. La mia voce era quella di tutti, così come i miei sogni e le mie speranze.
Tornando a casa mi venne in mente un pezzo dell'ultima lettera che il "Che" scrisse a Fidel prima di partire per la Bolivia, ricordava un altra partenza, quella dal Messico per Cuba.
Era la prima poesia che avevo imparato a memoria, me l'aveva insegnata mio padre ancor prima che la maestra mi insegnasse "la nebbia agli irti colli…".
" Un dia pasaron preguntando a quien se debia avisar en caso de muerte, y la posibilitad real del hecho nos golpè a todo. Despues supimos que era cierto que en una revolucion se triunfa o se muere, si es verdadera."
Già, intanto bisognava che la rivoluzione fosse vera, e poi, comunque, qualcuno era passato ad avvisare il "Che".
Anche quei compagni volevano cambiare il mondo ma nessuno li aveva avvisati che potevano morire per quello.
Bastava guardare quelle foto: quella di Claudio, con quel braccio piegato in modo innaturale e l'espressione quasi di stupore che aveva mantenuto sul viso, anche nella morte. E poi quella di Giannino che sembrava un manichino rotto che qualcuno aveva gettato via, la sua bella faccia da d'Artagnan che non gli si riconosceva più e il suo cervello a qualche passo da lui, con un carabiniere che gli faceva la guardia.
Nessuno, neanche quel carabiniere, avrebbe potuto leggere la bella morte sul suo viso.
Almeno il "Che" lo avevano sistemato un po', pareva un Cristo, il Cristo del Mantegna.
Però chissà, forse è vero che uno certe cose se le sente.
La madre di Claudio aveva raccontato che quel giorno suo figlio le era apparso un po' strano: era già uscito da casa di fretta perché in ritardo ma poi era poi risalito a salutare ancora lei e il fratello. Li aveva baciati ancora una volta prima di andarsene per sempre.
Io non credo ci siano gesti privi di senso ma soltanto che questo si trova, a volte, al di là della casualità, inafferrabile alla ragione. E' l'oscuro fascino del presagio al quale cerchiamo di non dare importanza, quasi a esorcizzarlo, ma che comunque ci impaurisce, ci pone confusamente davanti a qualcosa che riusciamo solo a percepire confusamente.
Non era un eroe Claudio, per essere un eroe bisogna volerlo, lui invece era un ragazzo come me, con qualche mese in più ma con gli stessi sogni. Anche lui aveva la passione per la politica e indossava la stessa camicia azzurra, quella dell'aviazione militare, portata fuori dai pantaloni, come la tenevo io.
In quei tragici giorni di aprile quattro compagni erano morti: Claudio Varalli e Giannino Zibecchi a Milano, Tonino Miccichè a Torino e Rodolfo Boschi(un compagno del P.C.I. ucciso a Firenze dalla polizia due giorni prima).
C'erano stati altri morti prima, Franceschi, Serrantini e tanti altri.
Ma da allora, da quei tragici giorni di aprile, in molti di noi nacque la consapevolezza che avremmo potuto anche morire, a sedici anni, per la difesa della democrazia.
Qualcuno ci aveva avvisato di quella possibilità e non lo aveva fatto per cortesia.
Però sapevamo che non avrebbero potuto ucciderci tutti, e che alla fine ce l'avremmo fatta a cambiare il mondo.
Ne eravamo certi.
Aprile finì nel sangue e un giovane fascista, Sergio Ramelli, ferito a sprangate alcuni giorni prima, morì il giorno ventinove di quel drammatico mese. Era stato colpito al posto del fratello e anche per lui la primavera era finita troppo presto.
Quella morte non lenì il mio dolore ne la mia rabbia.
Però anche quei giorni freddi, sperduti dovevano finire. Nessuno può fermare la primavera e i fiori sarebbero sbocciati ancora.
Il trenta di quel mese Saigon venne finalmente liberata, la guerra del Vietnam era finita.

Pino Angelico

Chi volesse intervenire su questo argomento o su altro può scriverci inviando materiale, documenti, informazioni e commenti a: info@pernondimenticare.com

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info@pernondimenticare.net (enzo) GLI INTERVENTI Sat, 04 Apr 2009 19:11:28 +0000
Carlo Giuliani: una morte cercata https://www.pernondimenticare.net/interventi/321-carlo-giuliani-una-morte-cercata https://www.pernondimenticare.net/interventi/321-carlo-giuliani-una-morte-cercata Carlo Giuliani: una morte cercata

 

Di fronte alla "sentenza" di archiviazione dell'inchiesta sulla morte di Carlo Giuliani, si può provare un senso di sgomento ma certo non è lecito restare sorpresi.
Ciao Carlo - foto dell'archivio Per non dimenticareL'assassinio di Carlo si va ad aggiungere a una lunga teoria di morti ammazzati per mano "pubblica" che non hanno avuto giustizia. Il libro curato da Paola Staccioli (In ordine pubblico, supplemento a "l'Unità", "Il Manifesto", "Liberazione", "Carta") ne estrae e presenta una decina di casi esemplari, ma l'elenco è molto più folto e nutrito. Perché sorprendersi dunque?
L'uccisione di manifestanti "contro" sia nella forma della strage (Portella delle Ginestre, per esempio), che in quella delle uccisioni di singoli o gruppi (i morti del luglio 1960), è una costante della storia del nostro Paese dal dopoguerra a oggi, scandisce con il ritmo lugubre della morte i vari tentativi di restaurazione del fascismo, di colpi di stato, o la velleità di bloccare la "rivoluzione culturale" in atto negli anni '70.
Abbinata allo stragismo e al terrorismo di destra (stragi) o delle BR (obiettivi individuali, in genere sindacalisti riformisti) la storia d'Italia degli ultimi cinquant'anni si è trascinata in una scia di sangue della quale una importante fetta di responsabilità cade sui responsabili dell'ordine pubblico, e un'altra sulle complicità offerte dai cosiddetti "servizi" e la cecità volontaria di molti magistrati la cui volontà di accertamento è spesso inversamente proporzionale al desiderio di allineamento sulle direttive ministeriale.
Figuriamoci dunque quale verità poteva venire accertata in un caso come quello di Carlo, inserito in una prodigiosa quanto prevedibile provocazione condotta in prima persona dal ministro dell'interno e sulla quale, con molta probabilità si sono inserite le velleità autoritarie di altre "autorità" vere e abusate che hanno voluto cercare l'occasione per rivelare il volto del governo.
Dal "noleggio" di black block veri e presunti (nazi block) per devastare la città, alla carica dei settori più fascisti della PS, dalla presenza del vice premier fascista Fini in cabina di regia, all'utilizzo delle trovate (molotov ecc) di quel genio del comandante dei PS romani per la provocazione e i pestaggi nella scuola. Insomma, possiamo persino dire che forse, l'episodio dell'omicidio di Carlo, inserito in quel coacervo di spaventose provocazioni, appare come il meno volontario e cercato. Anche se tutta la preparazione all'evento sembrava predisposta verso una tragedia annunciata. Anche se resta come una traccia rossa e colpevole l'incredibile ricostruzione dei "periti" circa il tortuoso percorso della pallottola prima di andare a conficcarsi nel volto di Carlo.
Non si tratta di cose nuove, le istruttorie su Roberto Franceschi e Giannino Zibecchi, tanto per citarne due, non hanno portato a risultati diversi.
Gli assassini o non si trovano o vengono assolti. E tuttavia qualcosa di diverso c'è. Leggendo i fatti di allora alla luce delle farneticazioni del "premier" di oggi non si può non collegarli a un crescendo di tentativi, a diversi livelli, di dare spallate al nostro sistema democratico. Tentativi ancora più pericolosi perché portati da un piduista (come i generali argentini) armato di una grande maggioranza in parlamento. Carlo, colui che nessuno ha ucciso, è dunque la prima vittima di questi tentativi di imporre un regime autoritario, insieme a D'Antona ("vittima di un regolamento di conti a sinistra", cit. da S.Berlusconi) e Biagi, "il rompicoglioni", come lo definirono Scajola e oggi lo stesso Berlusconi.
 

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info@pernondimenticare.net (enzo) GLI INTERVENTI Sat, 04 Apr 2009 19:08:04 +0000
Due sorelle: Giuliana e Mithal https://www.pernondimenticare.net/interventi/322-due-sorelle-giuliana-e-mithal https://www.pernondimenticare.net/interventi/322-due-sorelle-giuliana-e-mithal Due sorelle: Giuliana e Mithal

Quanto vi apprestate a leggere è composto di parole scritte tutte da Giuliana Sgrena, tratte dal suo appello e da un articolo del l'1 luglio 2004, su Mithal, una detenuta di Abu Graib.
Si tratta dunque della storia di due prigioniere, vittime, se non della stessa mano, certo della stessa ingiustizia.
Giulio Stocchi

la storia è lunga
i particolari dolorosi
giorni di inferno

Dalla fine di gennaio ero qui per testimoniare
La situazione di questo popolo
Che muore ogni giorno

alla fine mi hanno portato
in una cella un metro per un metro e mezzo
con una bottiglia d'acqua
e mi hanno lasciata lì per sei notti

Bambini vecchi le donne
Sono violentate
E la gente muore ovunque
Per strada

l'abbiamo rincorsa per mezza giornata
e poi un nuovo apputamento a casa sua

Non ha più niente da mangiare
Non ha più elettricità
Non ha acqua

a volte facevano mettere un centinaio
di prigionieri per terra e poi
vi passavano sopra

Vi prego
Mettete fine all'occupazione

eravamo spesso costrette a bere
l'acqua del cesso

Lo chiedo al governo italiano
Lo chiedo al popolo italiano
Perché faccia pressione sul governo

mithal si massaggia le mani
ricordando che per il laccio troppo stretto
le erano diventate tutte nere
non riusciva più a muoverle

Pier ti prego aiutami
Per piacere fai mettere le foto dei bambini
Colpiti dalle cluster bomb

l'ombra nera di kajal
fa risaltare il color grigio-verde
dei suoi grandi occhi

Chiedo alla mia famiglia
Di aiutarmi

una soldatessa
gliele aveva slegate per permetterle
di andare in bagno

E a tutti voi
Che avete lottato con me

allora io le ho dato i miei orecchini

Contro la guerra

io non ho fatto nulla di male
perché dovrei avere paura?

Contro l'occupazione

e poi dalle celle accanto arrivavano le urla
degli uomini torturati pianti e grida
che venivano registrate e ritrasmesse
tutta la notte ad alto volume

Vi prego
Aiutatemi

insieme ad altri suoni di passi sulla ghiaia
che si avvicinavano
ma lì c'era solo sabbia

Questo popolo
Non deve più soffrire
Così

ho riconosciuto alcuni detenuti,
come Abdul Mudud
al quale erano state rotte le mascelle
e tolto un occhio

Ritirate le truppe dall'Irak
Nessuno deve più venire in Irak

la destinazione era Abu Ghraib.
un'irachena venuta da fuori,
mi dava qualche banana

Perché tutti gli stranieri
Tutti gli italiani
Sono considerati nemici

in una stanza grande
c'era un dottore
che voleva che mi spogliassi
minacciava di tagliarmi i vestiti
addosso

Perfavore
Fate qualcosa per me

alla fine gli ho chiesto di poter almeno
tenere la biancheria intima
e lui ha accettato

Pier
Aiutami tu
Sei sempre stato con me
In tutte le mie battaglie

gli Stati uniti hanno occupato il nostro paese
abbiamo il diritto di difenderci

Ti prego aiutami

mi hanno portata
in uno stanzone gelato,
io battevo i denti
in bella mostra c'erano tutti
gli strumenti della tortura

Fai vedere tutte le foto
Che ho fatto sugli irakeni
Sui bambini colpiti dalle cluster bomb
Sulle donne

una delle prigioniere
costretta a camminare a quattro zampe
aveva ginocchia e gomiti
completamente rovinati

Ti prego aiutami

a un'altra hanno fatto separare
la merda dall'urina con le mani

Aiutami a chiedere
Il ritiro delle truppe

così è arrivata la soldatessa nera
che mi urlava in continuazione

Aiutami

ma visto che non mi spaventava alla fine
si è scusata sei coraggiosa mi ha detto

Lo chiedo a mio marito
Lo chiedo a Pier
Aiutami aiutami tu

una donna di sessant'anni
che aveva detto di essere vergine
veniva sempre minacciata di stupro

Tu solo
Mi puoi aiutare fino in fondo

un'altra aveva il corpo rovinato
perché veniva sbattuta contro il muro

A chiedere il ritiro
Delle truppe

un'altra è stata rinchiusa in una piccola
gabbia per sei giorni non poteva nemmeno
muoversi

Io conto su di te
La mia speranza
E' solo in te

a volte alzavano il riscaldamento al massimo
e per dormire dovevo buttarmi addosso

Tu devi aiutarmi a chiedere
Il ritiro delle truppe

quella poca acqua che mi davano
a volte non mi davano né acqua né cibo

Tutto il popolo italiano
Deve aiutarmi

i bambini li sentivamo urlare
anche loro venivano torturati

Tutti quelli che sono stati con me
In queste lotte

soprattutto venivano fatti assalire dai cani

Mi devono aiutare

un giorno mi hanno fatta appoggiare al muro
con le mani alzate ma io
non ce la facevo a restare così

La mia vita
Dipende da voi

alla fine ho chiesto di poter scrivere qualcosa
ai miei figli perché mi sarei suicidata

Fate pressione sul governo
Aiutatemi

sono stata rilasciata dopo
ottanta giorni
e mi hanno anche restituito
gli orecchini

Questo popolo
Non vuole occupazione

gli Stati uniti hanno occupato
il nostro paese
abbiamo il diritto di difenderci

Non vuole le truppe

abbiamo il diritto di difenderci

Non vuole stranieri

io non ho fatto nulla di male
perché dovrei avere paura?

Aiutatemi

io non ho fatto nulla di male

Ho sempre lottato con voi

 

 

 

 

 

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info@pernondimenticare.net (enzo) GLI INTERVENTI Sat, 04 Apr 2009 19:06:26 +0000
Genova: 20 luglio 2001 https://www.pernondimenticare.net/interventi/323-genova-20-luglio-2001 https://www.pernondimenticare.net/interventi/323-genova-20-luglio-2001  

         Milano: 17 Aprile 1975                  Genova: 20 Luglio 2001
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              Giannino Zibecchi

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                               Carlo Giuliani

 

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info@pernondimenticare.net (enzo) GLI INTERVENTI Sat, 04 Apr 2009 19:59:19 +0000
Gli alberi e la foresta https://www.pernondimenticare.net/interventi/324-gli-alberi-e-la-foresta https://www.pernondimenticare.net/interventi/324-gli-alberi-e-la-foresta  

Gli alberi e la foresta

 

Il potere degli USA è immenso. Lo sanno, lo vogliono dimostrare. Specialmente dopo la tragedia dell'11 settembre. Uno dei suoi limiti è la stupidità. Intendiamoci, non è la stupidità del ritardato mentale (escluso il Presidente, la cui espressione facciale abituale non promette niente di diverso), ma di chi non riesce mai, salvo casi eccezionali tipo la decisione di ritirarsi dal Viet Nam, dico mai ad andare oltre l'immediato. Certo sono intelligentissimi, nel costruire macchine da guerra, nel pubblicizzare le magliette, nel diffondere la loro way of life nel mondo, nello scoprire medicinali inutili o macchine scavatrici. Questo è tutto. Ma quando si tratta di sollevarsi dal suolo per giudicare (attività che distingue l'uomo, secondo Kant) con un minimo di previsione, è il disastro, il buio. Una volta si diceva, per definire il secchione che sa tutte le date ma ci capisce poco: intelligenza scolastica, vede gli alberi ma non la foresta.
Si pavoneggiano con queste facce blateranti in ostrogoto con l'odioso accento che nemmeno in Alabama sopportano, spiegano a tutti come va il mondo e come deve andare. Ma quanto a capirlo: niente, nulla, nada de nada. Per esempio. L'Iraq. Si sono inventati tutto, armi di distruzione di massa, collegamenti con Al Quaida, minacce dirette agli USA. Quindi hanno inserito la campagna contro l'Iraq nella più ampia azione contro il terrorismo. Risultato. Hanno conquistato l'Iraq, sono stati ringraziati solo dai saccheggiatori e da qualche collezionista di reperti mesopotamici, controllano (?) due città (Baghdad e in parte Bassora) e l'autostrada che le connette, più la strada per la Siria. Basta, non controllano altro. Sono odiati da tutto il mondo arabo, hanno rapporti difficili con tutti, hanno destabilizzato la regione, Sharon come sempre si fa i cavoli suoi, i siriani li prenderanno per i fondelli (i "perfidi" siriani imbrogliavano persino i romani!), hanno speso e spenderanno somme enormi. Saddam, a oggi, non l'hanno preso.
La lotta al terrorismo? Nemmeno sfiorata. Di Al Quaida in Iraq non vi è traccia perché Saddam detestava Bin Laden. Si è trattato di un regolamento di conti fra bande (Cia contro Saddam) perché Saddam non riconosceva più l'autorità del boss, e della conquista di nuovi profitti per gli sponsor della banda di ritardati che governa USA.
Lotta al terrorismo? Mentre Usa sistemavano il loro uomo ribelle, i terroristi dell'altro ex - uomo-USA (Bin Laden) in questi mesi si sono potuti preparare, si sono riorganizzati, e certamente hanno rafforzato la loro presenza nei paesi arabi grazie anche allo scarsissimo gradimento degli USA.
Risultato: 90 morti a Riad, paese da cui presto gli USA presto se ne andranno! Succederà di peggio e il M:O: diventerà una polveriera. Il progetto della banda era di conquistare e sistemare un paese dopo l'altro, l'Iraq, la Siria, l'Iran, poi la Corea, la pace fra Israele e Palestina…..Il tutto tenendo mobilitato il mondo per dieci anni a pochi Km dall'Europa e dalla Russia. Invece….dovranno fare tutto insieme: radere al suolo, i paesi sopraccitati, più Saudi Arabia, Oman, Emirati, Somalia, Sudan. Forse un minimo di capacità revisionale sarebbe servita. Forse occorreva qualcosa di più di una intelligenza scolastica.

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info@pernondimenticare.net (enzo) GLI INTERVENTI Sat, 04 Apr 2009 19:10:45 +0000